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Attualità

ELOGIO DELL’OZIO

ROMOLO VITELLI - 27/07/2012

“Tutta l’infelicità umana viene da una sola cosa, cioè dal non sapere stare in riposo in una camera”. Così recita il pensiero 139, uno tra i più pregnanti e noti del grande filosofo Pascal.

Questa riflessione pascaliana dovrebbe indurre quanti, incapaci di stare da soli con se stessi a riflettere, si aggrappano a qualsiasi cosa da fare, pur di non rimanere oziosi, perché sono incapaci di stare un attimo senza far niente.

Queste persone – dice il Cardinale Ravasi in ‘Le Parole e i giorni’ – “sono ‘workaholic’ cioè ‘lavoro-dipendenti’, aggrappati al cellulare o ai terminali, pronti a correre di qua e di là, perché convinti che ogni attimo perso è un guadagno o un risultalo svanito”.

Purtroppo molti conducono un’esistenza frenetica, senza senso, “non autentica”, per dirla con il filosofo Heidegger, attratti dal gossip, dalla chiacchiera e da una visione consumistica della vita, lasciandosi abbindolare da persuasori più o meno occulti, che si alternano in video. La nostra è una società condizionata da una spasmodica frenesia produttiva e consumistica, che misura il tempo in termini di danaro, e che quindi ha in forte avversione l’ozio. È un consumare spesso senza senso e senza fini e perciò diventa un produrre per il produrre ed insieme un ‘consumo senza gioia’.

Nel nostro sistema capitalistico tra ozio e miseria vi è un nesso di causa ed effetto, che instaura una circolarità viziosa. Del resto già gli antichi dicevano che gli ozi erano all’origine dei vizi e i moderni, ricordando che l’ozio è il padre dei vizi, hanno portato all’estrema conseguenza questa affermazione. Oggi l’ozio viene condannato come spreco di tempo e occasione di dissipazione, mentre il lavoro viene esaltato come attività nobilitante. Viene così dimenticata la vera natura di quell’otium di cui parlavano gli antichi, quello opposto, appunto, al negotium (cioè agli impegni politici e sociali, agli affari), che sottraeva la persona dal giro dei lavori e dai commerci.

 In questa società globalizzata, impostata sull’etica capitalista del lavoro, la concezione antica dell’ozio, in quei pochi casi in cui viene presa in considerazione, viene confusa come svago. Viene cioè concepita come una necessaria pausa dalla fatica in previsione di una migliore ripresa dell’attività lavorativa e di una più alta efficienza produttiva e non come un’attività libera, creativa e riflessiva, finalizzata dai propri immediati interessi, per meglio pervenire a una più compiuta consapevolezza di sé.

La società moderna, è bene non dimenticarlo, è caratterizzata da evidenti contraddizioni: ha esaltato il lavoro come strumento cardine di emancipazione e di liberazione e ne è divenuta vittima. Ha bandito l’ozio, massimo tra i vizi, e non riesce a garantire, come dovrebbe, lavoro per tutti e quando il lavoro c’è non sempre è piacevole, ma spesso ripetitivo e noioso. Dice a tal proposito il filosofo Remo Bodei, su l’Unità del 17 luglio 2012: “Non per tutti, lo sappiamo, il lavoro è un piacere e non a tutti tocca nella vita poterlo scegliere (e, oggi, averne uno). Spesso è il caso a determinare la professione (…). Chi ha ricevuto dalla lotteria naturale e sociale l’opportunità di un lavoro che lo soddisfa non dovrebbe dimenticare l’enorme spreco d’intelligenza e di vita nelle nostre società, l’esistenza di energie latenti che vengono imprigionate dalla prevedibile ripetitività e torpore mentale diffusi dai lavori ripetitivi o degradanti”.

Che fare? Che cosa possiamo kantianamente sperare a questo punto? Poiché non è in nostro potere fare la storia come vorremmo e poiché, per dirla con Edgar Morin, “il progresso umano non è certo, e che ogni progresso conquistato è fragile, bisognerebbe cercare di vivere sulla Terra in modo meno barbaro, meno cieco, meno meschino, comprenderci meglio e meglio comprendere gli altri. Non sarebbe possibile diventare migliori? Non potremo sopprimere né l’infelicità né la sofferenza: pur tuttavia non sarebbe possibile evitare tante sofferenze e miserie? Abbiamo dunque un imperativo vitale: civilizzare la Terra (consapevoli che la civiltà non può fare a meno di un minimo di barbarie), fraternizzare l’umanità (consapevoli che la fraternità non può sopprimere tutte le rivalità e le aggressività)”.

Quindi non ci resta che approfittare delle vacanze agostane per cercare di rendere migliore la nostra e l’altrui esistenza, recuperando il valore originario dell’ozio, così come lo intendevano gli antichi. Presso i greci e i romani l’otium, com’è noto, racchiudeva molti significati: il semplice ozio, la pace, il riposo dagli affari, ma anche la scholé dei greci, che oltre ai significati già menzionati, conteneva un genere di attività diversa da quella abituale: una forma di “disoccupazione studiosa”, cioè la contemplazione, la meditazione e le discussioni filosofiche. Ma oltre a queste, anche naturalmente, tutte le attività del tempo libero: i bagni e i pranzi e le cene e il teatro.

 Che fare dunque? Direi che in agosto, approfittando delle ferie, e danaro permettendo, conviene seguire i consigli dei classici, cercando di emulare il napoletano dell’epoca, che scriveva alla moglie: “Mi affanno a portarti in questa terra (la mia terra natale non è la Libia, né la barbara Tracia). La rendono temperata un mite inverno e una fresca estate, un mare tranquillo l’accarezza con le sue placide onde. Questi luoghi godono di una pace priva d’affanni, degli ozi di una vita distesa, di quiete mai turbata, e di sonni prolungati…”. Papinio Stazio, (le selve, III, 81/92).

 Se poi il costo della vacanza in quelle terre dovesse risultare eccessivo, rimangono sempre le spiagge i laghi e i monti a noi vicini per rilassarsi e ritemprarsi.

 Ma mentre si è in vacanza, lontani dal lavoro, non bisogna dimenticare di imparare anche a starsene chiusi in una stanza, magari in compagnia del “Manuale” di Epitteto; del “De Otio” e del “De Brevitate vitae”, di Seneca, testi questi ultimi nei quali il filosofo si preoccupa costantemente di conferire un senso positivo alle parole oziosi e oziosa vita e dove riabilita pienamente l’otium come stile di vita; i “Tristia”, di Ovidio, scritti nell’esilio a Tomi, sul Mar Nero, opera in cui il poeta fa coincidere l’otium con l’attività letteraria: uno scrittore, un intellettuale, per scrivere ha bisogno di otium. Perché leggere questi classici, solo per citarne alcuni, che hanno come tematica l’ozio? Per avere gli strumenti letterari e artistici per eseguire – come dice Georges Friedmann, in “La Puissance et la Sagesse” – “Ogni giorno, un esercizio spirituale”. Perché un esercizio spirituale? Perché le nostre parole, come le nostre vite, hanno perso il loro senso (i loro sensi) e dobbiamo imparare a ritrovarli, con gli esercizi spirituali, che ci aiuteranno a rinascere a nuova vita.

Però attenzione: quando sì sente l’espressione “esercizi spirituali” subito si pensa, quasi spontaneamente, alla religione e alla spiritualità, ma, secondo il filosofo Pierre Hadot, “questa sarebbe un’interpretazione troppo ristretta dato che gli esercizi spirituali non sono necessariamente legati alla religione, né storicamente né filosoficamente. I famosi Esercizi spirituali di Sant’Ignazio di Loyola sono stati ereditati dal pensiero antico tramite i monaci che avevano usato l’espressione ‘eserciti spirituali’ a proposito della loro pratica, che potrebbe essere esattamente quelle degli stoici”. Che cos’è dunque per Hadot un esercizio spirituale? È un esercizio, una pratica filosofica, come maniera di vita, che deve servire a trasformare la nostra visione del mondo e deve condurci, parafrasando M. M. Ponty, a “reimparare a vedere il mondo”.

La vera finalità dell’esercizio spirituale, secondo Hadot, è quella di “trascendere la componente più particolare, e quindi più insignificante dell’Io, per permettergli di ritrovare la sua vocazione universale, convergendo verso il principio razionale, la norma che regge la natura. Si tratta di abbandonare la propria visione egoista, relativa e parziale della realtà, per innalzarsi e vedere le cose dal punto di vista di Dio, della ragione, del Tutto”. Hadot ha esposto nel testo “Esercizi spirituali e filosofia antica” le caratteristiche che deve avere, nella sua concezione della filosofia, come modo di vivere, l’esercizio spirituale: “Imparare vivere,” “Imparare a dialogare,” “Imparare a morire,” e, infine, “Imparare a leggere”.

Cerchiamo di vedere meglio, anche se in sintesi, queste attività spirituali.

II primo compito è quello di imparare a leggere dei testi per imparare a vivere. “Passiamo la nostra vita a leggere” – dice Hadot – “ma non sappiamo più leggere, ossia fermarci, liberarci dalle nostre preoccupazioni, ritornare a noi stessi, lasciare da parte le nostre ricerche della sottigliezza e dell’originalità, meditare con calma, ruminare, lasciare che i testi ci parlino”.

Imparare a leggere è certamente tra gli esercizi spirituali, quello più difficile. “La gente – diceva Goethe – non sa quanto tempo e quanto sforzo costi imparare a leggere. Mi ci sono occorsi ottant’anni, e non sono neanche in grado di dire se ci sia riuscito”.

Che deve significare “imparare a dialogare?” Alla base del dialogo per Hadot c’è un profondo rispetto per l’Altro. Egli ritiene con Seneca che non si possa essere felici se si pensa solo a se stessi e quindi: “Vivi per gli altri se vuoi vivere per te”. (Lettera 48, 3). “Il dialogo come esercizio spirituale consiste precisamente nel riconoscere i diritti dell’altro nella discussione e soprattutto nel riconoscere una norma superiore al cui livello l’io deve innalzarsi per poter dialogare, quella norma superiore che è la ragione. I filosofi antichi hanno sempre sentito intensamente la preoccupazione degli altri. Socrate si presenta infatti come colui che ha ricevuto la missione di occuparsi degli altri, di far prender loro la decisione di occuparsi di se stessi”. (P. Hadot, La filosofia come modo di vivere, Einaudi).

Che significa ‘imparare a morire’ e come lo si impara?. Non esercitandosi “a fare il morto, se cosi si può dire, o a mimare la morte, come per esempio Carlo V che si metteva nella bara” – afferma ancora Hadot – ma pensando alla morte, per prepararsi alla morte, come preparazione alle difficoltà della vita e prendere coscienza del valore dell’istante presente. Bisogna trascorrere ogni giorno come se fosse l’ultimo, cercando di vivere in un modo estremamente intenso finché la morte non sopraggiunga. Esercitarsi a morire quindi vuol dire vivere con piena lucidità, staccarsi dal proprio io per aprirsi a una prospettiva universale”.

Come si deve ‘imparare a morire’ a maggior ragione si deve ‘imparare a vivere,’ “innanzitutto perché la vita è prova o esperienza di sé, del mondo, dell’altro. Ciò ci aiuta a liberarci dai pregiudizi e dalle considerazioni di interesse personale, cambiando il nostro punto di vista”.

 Nell’ozio estivo, che favorisce un sapere disinteressato e libera spazio per l’intimità, siamo pronti per instaurare e incrementare con gli altri le giuste relazioni, che negli affari e nei commerci o erano inesistenti o spesso strumentali.

Così, unendo orazianamente “l’utile con il dilettevole,” potremo dedicare buona parte del tempo rimasto, dopo la meditazione, a tutte le altre attività del tempo libero: i bagni, i pranzi e le cene, invitando a cena amici e gustando assieme, come diceva Orazio, “Vinello di Sabina in semplici boccali tu berrai: di quello che in un’anfora greca ho io stesso imbottigliato, con tanto di sigillo (…)”. (Invito Conviviale, Carmina,1,20 ).

Comunque, in mancanza di una produzione vinicola propria, ci si potrà sempre recare in un vicino supermercato e rifornirsi di qualche buona bottiglia di Marzemino o di un ottimo Gewürztraminer, due eccellenti vini che contribuiranno sicuramente ad alimentare il riso e il buon umore tra i commensali. Il banchetto, tra canti, storielle, giochi e brindisi e la consumazione di un menù, secondo i principi dello slow food, che considera il cibo come portatore di piacere, cultura, tradizioni, identità, e uno stile di vita, oltre che alimentare, rispettoso dei territori e delle tradizioni locali, appagherà i palati più raffinati e difficili di anfitrioni e ospiti, lasciando in tutti il ricordo di una piacevole giornata passata oziosamente.

Ma si potrà tranquillamente anche partecipare ad uno dei tanti “Festival dell’ozio,” che il FAI, Fondo Ambiente Italiano, organizza in estate e ritrovare un’atmosfera serena e piacevole da tutti desiderata.

L’otium estivo servirà quindi ad operare una salutare trasformazione della nostra esistenza e ritemprerà il nostro spirito, dando a ciascuno di noi, alla fine delle nostre vacanze agostane, la possibilità di riprendere la propria attività lavorativa con uno spirito e una visione di sé degli altri e del mondo, rinnovata, più produttiva, serena, tollerante e fraterna.

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