Sono trascorsi ben quarant’anni e il “dodici metri” di quello straordinario artista che fu Enrico Baj, per “l’espace d’un matin” assessore leghista a Varese, dedicato alla oscura morte e ai funerali dell’anarchico milanese Giuseppe Pinelli alla Questura di Milano, è ritornato nel luogo per il quale fu concepito, la Sala della Cariatidi di Palazzo Reale di Milano.
È un avvenimento sottaciuto, ma non solo artistico e culturale. È un fatto storico, una resurrezione, una meraviglia. Il “Guernica” della nostra storia, il grido straziante lanciato al cielo per una verità che non è mai arrivata (a parte quella giudiziaria), rimarrà esposto al pubblico sino al 2 settembre. L’ingresso è aperto a tutti e anche questo passaggio segna un grido di libertà per una pagina della nostra storia repubblicana inficiata da troppi misteri.
Ma, terminato il ciclo espositivo, quale sarà il destino del grande collage su pannelli di legno datato 1972? Nessuno lo sa, il Comune tace e questa è una preoccupazione generale, un inaccettabile scandalo pubblico, ultimo di un percorso confuso e assai tormentato come accade alla verità che in fondo disturba e occorre per forza nascondere fino che esce fuori lo stesso.
Il proprietario dell’opera, il gallerista milanese Giorgio Marconi ha fatto sapere che sarebbe pronto a donare l’opera al Comune di Milano in cambio di alcune garanzie sulla sua collocazione, prima fra tutte il sito prescelto.
Dovrebbe essere la Sala delle Cariatidi, “luogo straordinario” dal momento che nessun altro spazio gode “di simile forza e profondità”. Dunque per il “gallerista-possibile donatore” il pannello di Pinelli dovrebbe restare dove si trova oggi posto, se possibile, di fronte al Quarto Stato di Pelizza da Volpedo che, collocato com’è nel Museo del ‘900, appare penalizzato.
La storia dell’opera di Enrico Baj è singolare e tormentata la sua parte. Morto Pinelli, Baj decise di dedicare ai funerali del ferroviere, anarchico del Circolo della Ghisolfa, uomo buono, gran lavoratore, amico dei più deboli, un grande quadro. Dice Marconi: “Io andai a trovare l’artista diverse volte mosso dalla curiosità di capire come avrebbe risolto i problemi legati alle dimensioni. Fui colpito dalla soluzione che aveva ideato per il trasporto di un’opera di 12 metri. Ogni figura poteva essere spostata in modo autonomo come se fosse la tessera di un puzzle”.
L’opera doveva essere esposta nella Sala delle Cariatidi il 17 maggio 1972 alla presenza del sindaco Aldo Aniasi, il popolare “Iso” della Resistenza valsesiana, in precedenza impossibilitato a presenziare al vernissage per impegni politici. Era un martedì e proprio quel martedì maledetto, il 17 maggio appunto, Leonardo Marino e Ovidio Bompressi, killers di Lotta Continua, avevano assassinato il commissario Luigi Calabresi.
La storia d’Italia voltava pagina, i misteri in luogo di diradarsi si infittivano, le responsabilità viaggiavano in uno scenario incontrollato come manciate di peste. L’ordine fu quello di prendere il pannello di Baj, rimuoverlo in fretta, farlo scomparire alla velocità del suono. Sarebbe altrimenti suonato come un ingestibile oltraggio.
A quel punto Baj, ricorda Antonio Armano, che di questa vicenda ha scritto a lungo, aveva deciso di donare l’opera a Licia Pinelli e alle sue piccole figlie Silvia e Claudia (ritratte in basso a sinistra da Baj) ma la vedova dell’anarchico aveva risposto che nella sua casa mancava lo spazio necessario.
Per ‘I funerali dell’anarchico Pinelli’ (questa la dicitura esatta dell’opera) cominciò una nuova esistenza, diversa da quella per cui era stata pensata. Il pannello fu acquistato da Marconi, fu esposto nella mostra ‘Tra rivolta e rivoluzione’ a Bologna, poi viaggiò per l’Europa da Rotterdam, a Stoccolma, Dusseldorf, Anversa. Mai a Milano, se non a Brera nel 2003, in un contesto diverso.
Ora è a Palazzo Reale, luogo altamente simbolico, a due passi dalla Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana. Pinelli, interrogato per quella bomba, non uscì vivo dall’ufficio dove era stato confinato. L’inchiesta dell’allora Giudice Istruttore Gerardo D’Ambrosio escluse la presenza del commissario Calabresi, additato ingiustamente per anni fra i suoi potenziali assassini.
Poco lontano da Palazzo Reale ci sono altri due simboli di quel tempo infame. Le due lapidi, due cose diverse, due verità diverse ma con un punto d’incontro. Pinelli “innocente”. Un po’ come il contesto del pannello con due scenari distinti: nel lato sinistro le figure degli anarchici e dei familiari vinti dal dolore per la morte del compagno di lotta, del marito, del padre; nel lato opposto gli assassini, mostricciattoli che allungano le loro mani per farlo prigioniero. In un angolo le figlie, oggi madri di famiglia, che avevano già apprezzato il dipinto. Silvia, la maggiore, ha raccontato ad Armano: “Era il giorno precedente l’inaugurazione, il 16 maggio 1972 – io avevo dodici anni, mia sorella Claudia undici –. L’emozione fu fortissima. Baj avrebbe voluto farci una foto accanto alle nostre sagome ma il nostro avvocato non glielo concesse. La bambina che si copre il volto sono io. Quella con le braccia al cielo è mia sorella. Baj ci ha ritratto benissimo. Dopo quarant’anni provo la stessa emozione di fronte a quella rappresentazione della società spaccata”.
Roberta Baj, moglie del grande artista varesino, mostra un legame fortissimo a quell’opera del proprio marito: “Enrico Baj considerava la morte di Pinelli una grande ingiustizia, dettata dalla necessità di dover sbattere il mostro in prima pagina. Lui non aveva collocazione politica, era un uomo libero, non votava nemmeno. Oggi qualcuno gli appiccica il marchio del leghista perché fu assessore a Varese nella giunta Fassa ma lui si dimise subito, non era tagliato per la politica. Fu prima del debutto di Berlusconi. Poi riprese persino a votare. Contro, naturalmente”.
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