Il Tour appena vinto dall’inglese Bradley Wiggings come il Deserto dei Tartari di Buzzati, un romanzo inquietante giocato sull’assenza e l’attesa, vana, di un nemico disposto ad attaccare la fortezza Bastiani dove il tenebroso tenente Drogo e un’intera guarnigione consumano i giorni e gli anni, prima temendo e poi disperatamente sperando che all’orizzonte si materializzi il nemico per dare finalmente un senso alla loro vita di soldati. Fatte le debite proporzioni e reso omaggio alle fatiche rilevanti comunque sostenute dai corridori, il Tour 2012 è parso davvero quasi ispirarsi al fortunato libro (1940) dello scrittore bellunese in netta controtendenza rispetto alla narrazione avventurosa e picaresca che più si addice al ruvido sport delle due ruote. E diciamolo con tutta franchezza alle attese sempre appassionate dei tifosi. Con tono sia pure sommesso lo ha detto, nelle sue stimolanti “cronache gialle”, anche Alessandra De Stefano parlando di noia e di monotonia agonistica.
Seguendo le lunghissime telecronache il pensiero di chi conosce e ama il ciclismo non poteva che correre ad altri Tour vicini e lontani non importa, dove l’imboscata ciclistica, la fuga a sorpresa, l’attacco alla maglia gialla, la commedia e il dramma erano pane quotidiano. Così mi è capitato di andare molto indietro nel tempo, addirittura alla mia infanzia quando si realizzò un fatto che gli esperti dell’epoca escludevano potesse accadere, la vittoria nello stesso anno del Giro e del Tour da parte di uno stesso atleta. Accadde nel 1949 e a spezzare il tabù fu Fausto Coppi al debutto nella grande corsa a tappe francese dalla quale era stato tenuto per troppo tempo lontano dal suo scopritore e massaggiatore, Biagio Cavanna, che temeva per lui il caldo sconciante del luglio francese. Questo almeno mi confidò Ettore Milano il gregario e l’amico più caro del campionissimo dopo la scomparsa del fratello Serse nel’51.
Le premesse della suo trionfo le costruì in una delle prime tappe Alfredo Binda quando lo convinse a risalire in sella e a non ritirarsi dopo un incidente mentre era in fuga nella tappa di St. Malò. Da lì in poi fu una marcia trionfale al punto che i giornali francesi, storditi dalla sua disarmante facilità di pedalata, nella classifica generale accanto al suo nome, fra parentesi, annotavano: “fuori categoria”. A quel memorabile ’49 seguirono due anni grigi segnati da una spaventosa caduta al Giro e conseguente frattura del bacino, a Primolano (1950), all’inizio di una tappa dolomitica; poi l’anno dopo, come si è detto, la perdita del fratello, un trauma che lo portò a un passo dall’abbandono delle corse. Sembrava che in quei due anni sciagurati il campionissimo si fosse dissolto come un sogno troppo bello, quasi la sorte avversa volesse annientare quel prodigio atletico nato sulle colline di Castellania. E le Cassandre giornalistiche prosperavano. Non fu così. Il ’52 restituì il Fausto del ’49. E ancora fu un anno di trionfi incredibili con di nuovo l’accoppiata Giro –Tour, una rivoluzione copernicana.
Proprio mentre il Tour di Wiggins e del suo scudiero Froome si concludeva quasi senza colpo ferire – unica eccezione il coraggioso Nibali – sugli ultimi colli pirenaici, mi sono ricordato di quel lontanissimo ’52 e di un impresa straordinaria rimasta sempre troppo nell’ombra. Accadde il 17 luglio nella Limoges Clermont – Ferrand di 245 chilometri con arrivo in vetta al Puy de Dome, un vulcano spento di 1415 metri. Coppi aveva il Tour in cassaforte e poteva limitarsi a controllare le operazioni e in effetti così fece perché quella frazione doveva vincerla Bartali, 38 anni appena compiuti. Su quell’episodio al di là delle foto e dei filmati, stupendi, custoditi negli archivi francesi e italiani, fa fede la testimonianza diretta di Fiorenzo Magni: “Fu quella una delle grandi vittorie di Coppi, forse la più stupefacente per la potenza, l’agilità che espresse in pochi tornanti. Fulminante. Volevamo tutti che Gino vincesse. A metà salita, Bartali era in testa con Geminiani e Nolten, un giovanissimo, uno spilungone che andava forte in salita. Ma quella era una pendenza da capre, un muro. Mostruosità adatte al vecchio Gino. Pensavamo che, prima o poi, avrebbe stracciato quei due. Dietro, tutta la squadra tricolore (correvano le squadre nazionali ndr) badava a proteggere quella fuga. Poi, Binda ci venne a dire che Nolten aveva staccato Bartali. Dai nostri tornanti lo si vedeva, Nolten, in testa. Partì Fausto. Un motore compresso. In pochi chilometri recuperò un sacco di minuti. Sfilò Geminiani, sfilò Bartali, Sfilò Nolten. E vinse. Il Tour era davvero finito”.
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