Fin da ragazzo, appena ho cominciato a praticare atletica, ho sempre avuto una grande ammirazione per i vincitori dell’Olimpiade. Ne ho conosciuti molti e tutti certamente avevano grandi qualità fisiche e psicologiche.
Quando avevo diciassette anni, ho gareggiato nel disco (lanciando circa venti metri meno di lui) con Adolfo Consolini che in quella specialità aveva vinto la medaglia d’oro olimpica nel 1948. Fu la mia unica gara in quella disciplina, tranne quando partecipai al decathlon. Allora davo del lei a Consolini, ma negli anni successivi mi convinse a dargli del tu. Era diventato dirigente della squadra di atletica della Pirelli e, mentre ero studente in medicina e allenavo qualche atleta, mi chiese se volevo diventare tecnico della sua società, con tanto di retribuzione mensile. Quell’offerta mi fece molto piacere, ma dovetti rifiutare, anche perché allenavo per diletto, nei ritagli di tempo che l’università mi lasciava liberi.
Dopo di allora ho conosciuto personalmente altre medaglie d’oro dei Giochi. Ho avuto anche la fortuna di seguirne una dozzina dal punto di vista dell’allenamento e/o dell’alimentazione. Ogni volta è stata un’esperienza molto emozionante vederli (sempre per televisione) salire sul podio e sentire suonare l’inno italiano. Non so se anche questa volta ci sarà un atleta che vincerà a Londra fra quelli che ho consigliato. Probabilmente no.
Ma certamente – per me e per tutti – varrà la pena assistere all’Olimpiade, un grande spettacolo, superiore come audience a quella dei campionati mondiali di calcio o di qualunque altro evento sportivo. Rappresenta altresì l’appuntamento di sport più importante del quadriennio per la maggior parte delle discipline che vi si disputano, a partire dall’atletica e dal nuoto.
Vincere una medaglia olimpica valeva tanto in passato e tanto vale tuttora. Adesso, anzi, certamente vale di più dal punto di vista economico, dato che agli atleti non si richiede più lo status di dilettante per partecipare all’Olimpiade e i vantaggi – in termini di denaro e di popolarità – sono aumentati enormemente.
Ancora oggi, in ogni caso, una prestazione straordinaria, anche della durata di pochi istanti, è sufficiente per dare una popolarità globale e, quasi, l’immortalità. Se i filmati in bianco e nero delle quattro vittorie di Jesse Owens nel 1936 a Berlino continuano ad essere proiettati in molte occasioni, altrettanto si può dire delle immagini a colori dei balzi a Città del Messico nel 1968 di Bob Beamon (8,90 nel salto in lungo) e di Dick Fosbury (2,24 nel salto in alto). In questo secondo caso, anzi, le immagini dell’americano che scavalcava l’asticella con il dorso fece sì che quello stile innovativo si diffondesse dovunque e che, praticamente in pochi istanti, venisse considerato ormai superato quello stile ventrale che, fino a quel momento, era ritenuto il più avanzato, quello che era stato inventato da un americano, ma che i sovietici avevano perfezionato al massimo. Quella vittoria olimpica fece anche dimenticare a tutti che, in realtà, ad inventare quella tecnica del tutto originale era stata una ragazza canadese, Debbie Brill, e non Dick Fosbury.
In linea generale, ad ogni modo, direi che l’Olimpiade rappresenta al meglio lo sforzo che l’uomo compie per migliorarsi, per ottenere il massimo da sé. In questo sforzo, però, oggi il singolo atleta non può essere da solo, né gli può più bastare l’aiuto dell’allenatore, per quanto bravo egli possa essere. Al loro fianco ci devono studiosi e centri di ricerca. Da questo punto di vista, l’Italia è molto indietro rispetto ad altre nazioni. Ma sono sicuro che, nonostante questo, ci sarà, ancora una volta, qualche nostro connazionale che salirà sul gradino più alto del podio e per il quale suonerà l’inno di Mameli.
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