Non so se essere contento o un po’ depresso, perché vuol dire che gli anni sono passati. Ma no, vale la pena di essere felici, se si raggiunge – come nel mio caso – il traguardo della decima presenza ai Giochi olimpici (estivi e invernali, perché, seguendo pure lo sci, frequento pure i cinque cerchi “imbiancati”). E mentre ho già cominciato l’avventura a Londra 2012, non mi può non scappare il pensiero alla mia prima volta: Barcellona 1992. In realtà avrebbe dovuto coincidere con Seul 1988, quando ero ancora alla Gazzetta dello Sport e non sapevo che sarei sbarcato poi al Corriere della Sera. Ma andò diversamente dall’atteso e dal preventivato: ero già nella lista “rosea” per la missione coreana, quando la moglie di un collega che seguiva l’atletica ebbe un problema di salute; il marito preferì rinunciare e fu così che il caporedattore mi chiese il sacrificio di lasciare il posto a chi, specializzato in quello sport, potesse essere un miglior rimpiazzo rispetto a me, che all’epoca mi occupavo soprattutto di basket. Sì, fu un colpo duro. Ma in certi casi occorre essere professionisti e saper ragionare di “squadra”.
Rischiavo di impararlo anche quattro anni dopo, perché, essendo da poco migrato al piano numero 1 di via Solferino, ero solo riserva nella squadra olimpica del Corrierone. Ma quella volta andò meglio: la fortuna che mi aveva voltato le spalle nel 1988 girò a mio favore. Mario Gherarducci, ex capo dello sport del Corriere e illustre veterano del giornalismo sportivo, alla fine decise di dare forfait. Così fui mobilitato al suo posto.
Mi sembrò un sogno e i Giochi mi parvero ancora più belli nel momento in cui raggiunsi una Barcellona che, grazie alla manifestazione, aveva già cambiato profondamente volto e si apprestava a diventare la perla che tutti noi conosciamo. Arrivai senza una missione specifica, ma guardando di tutto e di più, pur sapendo che avrei frequentato prima di tutto l’impareggiabile Dream Team del basket Usa. Scoprii la realtà del villaggio olimpico – e alla sua chiusura, con un piccolo scoop, scoprii che Ben Johnson, scontata la squalifica ma ormai incapace di tornare grande dopo lo scandalo del 1988, era stato denunciato per un furto al supermercato destinato agli atleti -, mi entusiasmai per la cerimonia inaugurale e per quel primo esempio di Olimpiade-show, vissi a pieni polmoni lo spirito dei cinque cerchi. Da quel giorno i quattro anni che separano due edizioni contigue dei Giochi sono per me motivo di attesa, di trepidazione e di lavoro finalizzato: mi occupo, infatti, di organizzare (anche sul piano logistico e dell’allestimento dell’ufficio al centro stampa) le spedizioni del mio giornale. E c’è grande gioia quando, entrando al centro stampa, scopri che tutto, o quasi tutto, è a posto. Anche a Londra è andata così e i Giochi della mia personale “stella”, sì un po’ come quando un club conquista il decimo scudetto, stanno diventando l’occasione per un viaggio a ritroso.
A parte l’edizione Barcellona, che cosa rammento? Quali le curiosità che escono dal passato? Be’, rammento tanto, forse troppo per arrivare a una sintesi ponderata. Mi viene però ancora in mente il grande casino di Atlanta 96, l’edizione del centenario scippata malamente ai greci e organizzata dagli americani con una taccagneria degna di miglior causa. Furono i Giochi nei quali la metropolitana si guastava praticamente ogni giorno, mandando in tilt il sistema intero. E fu anche, purtroppo, l’Olimpiade che anticipò, con una bomba esplosa nottetempo nel parco destinato ai tifosi e ai turisti, quanto sarebbe capitato cinque anni dopo al World Trade Center di New York. Fu una pagina mai veramente chiarita, fu uno dei tanti capitoli oscuri di un Paese, gli Stati Uniti, che spesso non ce la raccontano giusta (e nel conto metto anche le tante ombre che personalmente continuo a vedere in merito all’11 settembre). Ma non è di questo che ci importa parlare: Per me fu emozionante aspettare Yuri Chechi, dopo la sua vittoria, fino alle 3 del mattino perché non riusciva a fare pipì all’antidoping. E fu bello, molto bello, cominciare a raccontare di una scherma italiana dominatrice: spero che anche qui, dove una Vezzali cerca di diventare – come Carl Lewis e Al Oerter – quadriolimpionica di fila in una sola specialità – questa tradizione prosegua. E non solo, sia chiaro, nel nome di Valentina.
Che altro dire? Che i Giochi mi hanno permesso di stare vicino a campioni inarrivabili, italiani e stranieri. Anche se a volte può capitare qualcosa di strano, ad esempio la vicenda che ai Giochi invernali di Nagano mi accomunò al collega Fabio Cavalera. Dovevamo intervistare Gerda Weissensteiner, oro nello slittino quattro anni prima a Lillehammer e nominata portabandiera nella sfilata inaugurale, ma né io né Fabio avevamo ben presente che faccia avesse (beata ignoranza…), a parte il fatto che era bionda che più bionda non si può. Bene, giravamo sulla neve e sul ghiaccio della “Spirale” (impianto anche del bob), deserto a quell’ora del mattino (saranno state le 8.30) anche se sapevamo che sarebbe arrivata la nostra nazionale ad allenarsi. Quando temevamo di incappare al massimo nello Yeti, ecco palesarsi un tipo che non era giapponese e aveva l’aria, anzi, molto europea. Si trattava di Paul Hildgartner, oro nello slittino biposto a Sapporo ’72 (rammentavo bene la sua impresa, anche se l’allora TV in bianco e nero la diede in abbondante differita…): si era trasferito in Estremo Oriente e allenava i giapponesi. Non seppe dirci di più, sull’allenamento di Gerda, ma se non altro mise fine al nostro pericoloso girovagare su lastre di ghiaccio e tratti in pendenza spiegandoci da che parte sarebbe potuta sbucare. Così ci appostammo in paziente attesa davanti all’uscita del fatidico tunnel… Ma avete idea di quanti bionde altoatesine ci sono in una nazionale italiana degli sport invernali?… Intercettammo la Weissensteiner solo al terzo tentativo, dopo essere passati attraverso figure imbarazzanti, come girare intorno alle parole e al discorso per capire se fosse lei, oppure, in maniera più diretta, sbirciando il nome sul pass.
Ma anche questa goffaggine appartiene alla storia delle mie dieci volte tra i cinque cerchi e di una passione che vale ore e ore di lavoro e un sacco di sacrifici: lo sapete che per il titolo di Razzoli nello slalom, a Vancouver 2010, ho dovuto preparare tra una manche e l’altra ben sette versioni dello stesso pezzo (a metà gara Giuliano era già in testa, ma c’era anche Moelgg, terzo, in zona podio e si doveva prevedere ogni scenario possibile, dati il fuso sfavorevolissimo e il termine della competizione sul filo della chiusura del giornale)? E lo sapete che poi ne è stata necessaria una in più, l’ottava, per riportare in seconda edizione il suo parlato da olimpionico? Cominciai quella giornata alle 5 del mattino a Vancouver. La conclusi, dopo un’andata e ritorno per/da Whistler (240 km in totale), dopo la gara e dopo il lavoro, a mezzanotte a Casa Italia, quando finalmente fummo in grado di intervistare in lungo e in largo il buon “Razzo”.
Se pesco quello che dice che fare i giornalisti è sempre meglio che lavorare… A proposito, infine, di lavorare: vi confesso che mi sono posto un traguardo professionale forse ardito, senz’altro ambito, chissà se conseguito. Il traguardo è scrivere di Olimpiadi estive ed invernali sino al 2020, così da battere il record giornalistico di Giampaolo Ormezzano, che seguì tredici Giochi. Ci aggiorniamo, spero.
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