Siamo dunque un Paese ad alta densità di poveri. Più famiglie in affanno, più capifamiglia senza lavoro, più famigliarità con il disagio. Statistiche Istat, roba fresca. Ma lo sapevamo già: per capire come vanno le cose, spesso non c’è bisogno dei numeri ufficiali. Basta la cifra emozionale, quella scritta dal contatto con la realtà. Perciò, nessuno sbattere di ciglia. Solo la conferma del già visto, percepito, annotato. Non visioniarietà o chiacchierume, come spesso ci siamo sentiti rimproverare (le pizzerie piene, i caffè figuriamoci, per non parlare dei weekend a tutta folla); ma la presa d’atto d’una evidente realtà. Una realtà che riguarda, ad andar cauti, l’undici per cento degl’italiani. Diciamo cauti, perché esiste, oltre alla povertà accertata, una povertà sommersa, nascosta nelle pieghe sociali periferiche: rughe che il rimmel dell’ipocrisia s’ingegna a ricoprire, così che il volto del mondo sembri diverso da quel che è. Forza con il cerone, che è quanto conta nella civiltà dell’apparire, e avanti lo stesso.
Il grido del povero sale fino a Dio, spiega consolatoria la Bibbia. E troverà ascolto, lassù. Senz’altro. Ma quaggiù, ne trova poco. Non sempre arriva all’orecchio popolare. Oltre che dei poveri, è in aumento il numero dei sordi, però nessuna rilevazione lo racconta. Sordi al richiamo della carità. Chiedetelo agl’impegnati nel volontariato, quotidianamente a contatto con gesti di munificenza e, insieme, con il rituale della pidocchieria oversize. Ci sono infatti, accanto ai poveri, i poveretti. I poveracci. Il poverume dello spirito umano. Se non ci fossero, ci troveremmo in condizioni diverse dalle attuali: non tutti che compiono il loro dovere verso la comunità, e la comunità costretta a fare la parte di chi la rifiuta. Parte concreta: tasse versate, sacrifici economici, privazioni umilianti. Ecco il risultato della sguaiatezza etica, del cialtronismo esistenziale, dei disvalori avvaloratisi in questi anni di sciagurata e malintesa allegria. Non che l’allegria sia il demone da metter fuorilegge: al contrario, proprio per affermare il diritto a goderne da parte di ciascuno, bisognerebbe che ciascun altro s’imponesse il dovere di favorirla. A vantaggio del noi, invece che dell’io.
Non si dice d’esagerare nella prodigalità, e di diventare dei convertiti radicali al bello della miseria, come fu Iacopone da Todi seguendo la road map francescana; però un po’ rinunciatari e donatori, beh, questo sì. Aiuterebbe. D’accordo, è alla mano pubblica che principalmente tocca di sostenere le fragilità di massa; tuttavia la mano privata, se tirata fuori dalla tasca dell’egoismo, può servire.
In terra prealpina vantiamo una bella tradizione di fiancheggiamento ai poveri. Dati i tempi, non le resta che diventare bellissima. Di volgersi, prendendo spunto dall’appuntamento sportivo londinese, in una sorta d’Olimpiade della compassione, della pietà. Lo ha ricordato di recente l’arcivescovo ambrosiano: guardatevi intorno, guardatevi dentro, guardate in alto e lontano. Più che di spendere, è il momento di spendersi. Un invito, non un monito. L’Istat lo ha trasformato in una necessità. In assenza di migliori pensieri laici, ci soccorra il pensiero religioso che saremo tutti mendicanti, il giorno della resa dei conti. E dunque, se non d’ideali, facciamone almeno una questione di convenienza. I botteghini della misericordia sono sempre aperti, e non bisogna neppure fare la coda per affacciarvisi.
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