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Storia

IL SEGNO VARESINO NELL’INDIPENDENZA DELL’ALGERIA

FRANCO GIANNANTONI - 13/07/2012

Giovanni Pirelli

Giovanni Pirelli

Era il 3 luglio 1962, mezzo secolo fa. L’Algeria, dopo una sanguinosa guerra civile e partigiana, otteneva l’agognata indipendenza. Lo scrittore varesino Giovanni Pirelli – il commissario “Pioppo” della 90a Brigata Garibaldi “Zampiero” della Val Chiavenna ma anche l’alpino che aveva conosciuto la follia fascista della guerra di Russia, nonché il primogenito della famiglia dei grandi industriali della gomma – scriveva, al ritorno da quella esaltante esperienza a cui aveva partecipato come collaboratore del “Fronte di Liberazione Nazionale” e della “Reseau Jeanson”, assieme a Janine Cahen, ex combattente torturata “Una Resistenza incompiuta. La guerra d’Algeria e gli anti-colonialisti francesi 1954-1962” e, da solo, “Racconti di bambini di Algeria”, il dramma e i sogni di tanti innocenti testimoni di una lotta combattuta dagli avi e, ancora, “Lettere della Rivoluzione algerina”, le voci raccolte sul campo di battaglia. Dal canto suo l’ex gappista milanese del “Fronte della Gioventù” di Eugenio Curiel, il regista Gillo Pontecorvo, avrebbe regalato al mondo quella splendida, indimenticabile pellicola “La battaglia d’Algeri”, eterno monumento al coraggio degli uomini diseredati ma gonfi di idealità.

“Il Governo provvisorio – ha scritto giorni fa con la sua penna raffinata e intensa Bernardo Valli – arrivò nel centro di Algeri su un autocarro. I ministri, tra i quali non mancavano i capi storici della Rivoluzione, erano ammassati nel cassone, in piedi, come muratori diretti al cantiere. La semplicità di quell’apparizione attizzava l’entusiasmo della folla. I vincitori della lotta armata erano in maniche di camicia. Senza mitra e pistole. La scorta armata si era sperduta tra la gente in delirio. Forse non c’era. Era quella l’autentica immagine della nuova Algeria?”.

In realtà quel gruppo di uomini che attraversava la capitale di un Paese da poche ore indipendente da Parigi, dopo 132 anni di dominio francese, rappresentava un potere fragile, forse già esautorato ma in quei momenti incarnava l’orgoglio di un popolo che, per riconquistare la dignità nazionale, aveva lasciato sul campo centinaia di migliaia di donne e di uomini. Per il Fronte di Liberazione Nazionale (Fln), le vittime erano state un milione.

Si era trattato della sola indipendenza nel Continente strappata con le armi in pugno. Una lotta armata sostenuta da non molti (gli appetiti e interessi coloniali sono duri a morire ad ogni latitudine) ma neppure pochi occidentali, fra cui il presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy, i partiti della sinistra europei, gli intellettuali francesi guidati da Jean Paul Sartre.

“Per i francesi, la guerra d’Algeria è una ferita ancora aperta. Qualcosa però sta cambiando, Qualche anno fa, infatti, non avrei potuto scrivere un romanzo sull’uso della tortura durante il conflitto senza suscitare delle reazioni violente. Sarebbe stato impossibile”. Chi parla, proprio in queste ore di saldi ricordi, è lo scrittore Jerome Ferrari e fa un po’ impressione.

Parla con il suo ultimo libro “Dove ho lasciato l’anima” (Fazi Editore) in cui rievoca la “sporca guerra” condotta dai soldati francesi dal 1956 al 1962 per cercare di difendere (e non perdere) la più importante delle loro colonie. Tre sono i personaggi di un racconto travolgente e a tratti insopportabile quanto crudo, due ufficiali francesi e un militante algerino, loro prigioniero, messi a confronto con la violenza del conflitto, l’uso della tortura, la sofferenza di chi la subisce e le contraddizioni di chi la infligge (storia vissuta nell’occupazione nazifascista nel nostro Paese a dosi massicce e oggi ancora in Iraq, in Afghanistan, negli Stati Uniti, in Russia ecc. ecc.). Un paradosso emerge e colpisce al cuore: molti di quei militari francesi avevano partecipato alla Seconda guerra mondiale, spesso nelle fila del maquis, erano stati torturati e internati nei campi di Hitler. In Algeria i torturatori erano diventati loro. Uno dei due ufficiali, il capitano Degorce sa di essersi trasformato in ciò che in passato aveva combattuto.

Come sia poi andata la storia di Algeria è nota a tutti (o quasi). Mentre la Francia si stava liberando dei suoi parà mettendo fine alla guerra durata otto anni, ad Algeri si festeggiava un governo provvisorio che, senza saperlo, avrebbe avuto solo qualche ora di vita. Questa era la nuova tragedia. Qualche ora ancora. Non di più.

Il Governo Provvisorio che percorreva le strade di Algeri rappresentava infatti solo sé stesso. Godeva dell’appoggio popolare dopo gli accordi di Evian (Svizzera) perché era il simbolo dell’Algeria indipendente. Ma il vero potere, un lupo mannaro in agguato, era altrove, risiedeva nell’ “esercito delle frontiere”, negli 80mila uomini ben armati ed organizzati schierati ai confini tunisino e marocchino al comando dello sconosciuto colonnello Huari Bumedien pronto a marciare su Algeri.

Il grande scrittore algerino Kateb Yacine aveva ritenuto sin dal giorno dell’indipendenza che, dietro la felicità di quel frangente, covasse la tragedia. La rivoluzione vittoriosa stava per essere tradita da gran parte dei suoi stessi protagonisti.

Kateb sosteneva che i militari agli ordini di Bumedien fossero stati contagiati dai parà francesi del feroce generale Massu. Non a caso alcuni ufficiali dell’esercito di Bumedien venivano dall’Armée da cui avevano disertato. Mentre la Francia si stava liberando dei suoi parà, mettendo fine alla guerra, in Algeria ci si stava preparando ad accogliere le loro imitazioni.

L’esito fu fatale. Amhed ben Bella, dalle caserme di Tlemcen, era pronto a piombare su Algeri con l’aiuto di Bumedien deciso ad usare per un paio d’anni la grande popolarità di Ben Bellah, eroe della prima ora e per anni incarcerato in terra francese.

Il moderato Benjucef Benkhedda, un farmacista, spesso in contrasto con gli “uomini della rivoluzione”, negoziatore ad Evian della tregua (e del referendum che avrebbe affermato l’indipendenza), primo ministro del Governo provvisorio ed i suoi ministri stavano per essere spazzati via. Con loro sarebbero crollati i principi democratici in cui avevano creduto e che avevano sostenuto nel lungo contrasto politico e armato con la Francia.

Intanto nelle campagne era iniziato nel sangue il regolamento dei conti. Una mattanza. A cadere i collaborazionisti, per primi gli Harki, schierati con De Gaulle e che il generale solo in parte aveva salvato portandoli in Francia (40 mila). Al potere, portato da Bumedien e dai suoi 80 mila uomini, era salito Ahmed Ben Bella che invano avrebbe tentato di dare un’impronta politica libertaria al suo regime.

Per lui andrà molto male: nel 1956 venne cacciato dai militari sempre nell’ombra, stanchi del caos in cui era precipitato il Paese. Il vuoto di potere era stato riempito nel peggiore dei modi. Ma questo è purtroppo un classico. arnata

Giovanni Pirelli

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