Tra i tanti motivi che consentirono ad altri popoli europei di costituirsi in Stati nazionali prima di noi italiani, almeno uno va ricercato nei miti in cui essi si identificarono, perché gliene fornirono la base ideale. Infatti, El Cid Campeador, i Cavalieri della Tavola Rotonda, il paladino di Carlo Magno Roland ed il tedesco Sigfrido furono i miti di quelle saghe intorno alle quali si agglomerarono la virtù militare, il senso dell’obbedienza e del sacrificio intesi come valori identificanti ed irrinunciabili per quei popoli. Purtroppo, tali valori in Italia non avrebbero messo mai salde radici, e questo non perché a noi mancassero i miti ma, semmai, la loro spendibilità in una società che aveva abbracciato un credo religioso «pacifista», fondato sull’amore per il prossimo, presupposto indispensabile per potere aspirare alle beatitudini ultraterrene dopo la morte.
Fu questo nuovo senso della vita ad impedire che gli italiani – sull’esempio dei loro vicini di casa – potessero riconoscersi in dei miti aggreganti, perché quelli avuti in eredità dalla patria latina erano del tutto incompatibili col Cristianesimo. Per dirla in termini più netti, i nostri miti di riferimento non si potevano «cristianizzare», perché essi non erano né mistici, né disinteressati ma donnaioli, seminatori di zizzania tra i mortali ed implacabili mascalzoni. Facciamo l’esempio di Romolo, il fondatore di Roma e, quindi, della nostra stessa civiltà: come avrebbe potuto assurgere a mito di coloro che credevano in Cristo il figlio fratricida di una monaca che, dopo avere tradito il voto di castità, aveva tentato di liberarsi dei gemelli appena partoriti con un malriuscito, duplice infanticidio? Se a questo aggiungiamo che, poi, quei due bambini, Romolo e Remo, furono salvati e tirati su da una prostituta e che Romolo inaugurò il primo stupro di massa della storia (il cosiddetto ratto delle sabine), si capisce meglio perché sarebbe stato impossibile adeguare i nostri miti fondanti al Cristianesimo.
Né migliore sorte avrebbe avuto un tentativo di aggregazione sociale di tipo guerriero, sul modello dei Franchi o dei Longobardi. Infatti, un po’ perché per molti secoli avevano vissuto all’insegna degli eccessi, un po’ a causa della mitezza del subentrante messaggio cristiano, i nostri progenitori latini del tardo Impero si erano infrolliti al punto di essere diventati inaffidabili come soldati. Presone atto, il pragmatico imperatore romano Flavio Vespasiano – quello che mise la tassa sui cessi – valutò conveniente dispensare gli italiani dal servizio militare e sostituirli con personale arruolato in Gallia, in Spagna ed in Africa. Quella decisione imperiale produsse, come conseguenza, il fatto che l’esercito romano perdesse del tutto l’impronta latina o, se vogliamo, proto – nazionale, perciò, quando l’Italia fu invasa da popoli che pur essendo agli albori della civiltà erano eccellenti guerrieri, gli italiani si ritrovarono a fronteggiarli privi di ogni attitudine militare, oltre che in pieno travaglio spirituale. Il Cristianesimo, in realtà, fu determinante per l’annichilimento delle virtù militari dei suoi primi seguaci perché esso affidava il destino terreno degli uomini non più alla spada ma a Colui che, in presenza della violenza, esortava a porgere l’altra guancia.
Negare ciò sarebbe antistorico, anche perché fu proprio uno dei vicari di Cristo in terra a dare la spallata finale alle residuali capacità militari degli italiani: una consolidata tradizione cristiana vuole che papa Leone I, spalleggiato da una folta schiera di angeli armati con spade di fuoco, abbia fermato Attila e le sue terribili orde sul Mincio. Pertanto, a partire da quel momento, la scarsa propensione militare degli italiani ed il loro individualismo trovarono giustificazione anche sul piano religioso, grazie al fatto che avevano a difenderli dai nemici il papa e le armate celesti. Stante l’autorevole precedente del Mincio, i principi cristiani quando aprivano gli arruolamenti per le proprie imprese, anche per le peggiori imprese, curavano di arruolare innanzitutto santi e Madonne. Nel 1366 Amedeo VI di Savoia, passato alla storia come il Conte Verde perché adorava quel colore, prima di recarsi a liberare dai turchi la città di Gallipoli, porto – chiave dello stretto dei Dardanelli, precettò addirittura la madre di Gesù facendo inalberare sulle sue navi lo «Zendado azzurro col- l’immagine di Nostra Signora». Forse non tutti i tifosi sanno che l’azzurro è diventato il colore della nostra Nazionale di calcio, poiché da quel momento divenne il colore distintivo della monarchia savoiarda che ha governato l’Italia unita fino al 1946.
Fu proprio al Conte Verde che, se si eccettua il ratto di Elena di Troia, toccò la ventura di dovere ufficialmente gestire il primo scandalo politico internazionale legato al sesso. Durante la tappa a Bisanzio, essendo stato sorpreso nel letto di un nobile bizantino con la di lui consorte, uno dei più valenti cavalieri di Amedeo VI, era stato portato d’avanti all’imperatore latino d’Oriente affinché stabilisse la pena per un accadimento che, all’epoca, non era un reato da poco. Per una di quelle carinerie in uso tra i monarchi del tempo, l’imperatore bizantino demandò al Conte il compito di stabilire la pena per il suo intemperante cavaliere, ma il duce savoiardo fece in modo di riuscire a salvare capra e cavoli. Sentenziò, infatti, che al violatore dei talami bizantini venisse tagliata la fluente barba – che allora era un riconosciuto simbolo di virilità – e non, come prevedeva il codice penale di Bisanzio, l’attrezzo con il quale aveva commesso il reato: se all’epoca fosse esistito anche un santo protettore dei bigoli, l’ingrifato cavaliere savoiardo avrebbe dovuto accendergli una selva di candele! Oddio, da quei tempi ad oggi, non è che sia cambiato di molto il sentire dei nostri connazionali, visto che essi continuano ad affidare la soluzione dei propri problemi a Padre Pio, a San Gennaro e ad altri loro commilitoni nel celeste esercito. Una delle riprove di ciò è nel fatto che la pubblicità di un noto lassativo continua ad occhieggiare in televisione con la premessa che «Gli italiani sanno sempre a quale santo votarsi!».
La verità è che l’impossibilità di apparentarsi con gli antichi miti pagani lasciò gli italiani ostaggi di quelli della Chiesa. Sicché, grazie all’assenza di uno Stato laico centralizzante, essa poté plasmare degli individui – cittadini superstiziosi ed emotivi, la cui fede religiosa era un misto di fanatismo e superstizione e che, in fatto di principi morali, erano piuttosto accomodanti. E lo diventeranno ancora di più grazie a quelle due sagome di Francesco Guicciardini e Niccolò Macchiavelli, i teorizzatori del- l’egoismo e della doppiezza intesi come metodo di governo degli uomini. Era fatale, dunque, che su tali caratteristiche psicodinamiche non potessero basarsi né un’etica nazionale, né ideali che inducessero a concepire il servizio militare come primario dove- re del cittadino. Per quella ragione, gli eserciti degli Stati e staterelli italiani dovevano essere tratti dalla riottosa leva cittadina e del contado, oppure da contingenti mercenari. Faceva eccezione il Ducato dei Savoia. Infatti, Emanuele Filiberto, detto Testa di ferro (che di ferro non doveva avere soltanto la testa visto che incrementò la popolazione del Ducato con una quantità incredibile di figli bastardi), aveva sostituito la milizia feudale con un esercito permanente raccolto nei Colonnellati di Ivrea, Asti e Nizza. I Colonnellati piemontesi erano le regioni amministrative deputate a fornire i soldati occorrenti per costituire un reparto equivalente all’attuale Reggimento, alla cui testa veniva posto un comandante che di conseguenza diventava ciò che, poi, sarà un grado militare fondamentale in tutti gli eserciti del mondo: Colonnello.
Per organizzare il loro piccolo ma efficiente esercito, i Savoia si ispirarono all’ordinamento militare della confinante Francia, che aveva già da tempo costituito un esercito nazionale, nella cui area politica e culturale essi, volente o nolente, furono costretti ad orbitare fino al Congresso di Vienna. Ad ogni buon conto, la milizia permanente creata da Emanuele Filiberto riuscirà ad inculcare nei sabaudi, già di loro tignosi montanari, quel senso di appartenenza e quella combattività che mancheranno invece ai restanti italiani fino all’alba del Risorgimento. Tuttavia, per quanto di stirpe nordica, neppure i sabaudi si mostrarono freddi e razionali, insomma neppure essi furono immuni da quel virus dell’emotività creativa che sarebbe diventata croce e delizia della futura Nazione italiana e del suo Esercito. Per quanto l’agiografia risorgimentale tenga a celebrare Balilla e Pietro Micca come gli antesignani di tutta una sfilza di «beau geste» risorgimentali, in realtà, il primo, vero gesto di quel particolare patriottismo italico che avrebbe impregnato di sé tutta l’epopea risorgimentale, lo compì una donna del popolo. Il 15 agosto del 1543, turchi e francesi, in una di quelle alleanze che spesso vedevano combattere insieme eserciti musulmani e cristiani contro altri eserciti cristiani, attaccarono Nizza, che allora faceva parte del ducato di Savoia, ma la città venne tenacemente difesa dai militari e dalla popolazione civile, donne comprese. Infatti, durante i combattimenti di quel caldo giorno di agosto, un assatanato portabandiera turco che era riuscito a balzare sugli spalti di Nizza, ebbe la sfortuna di trovarsi di fronte una giunonica lavandaia in versione guerriera, Caterina Segurana: questa, dopo averlo inebetito con un repentino sollevamento della gonna e l’esibizione in eurovisione della propria topolona (all’epoca l’uso delle mutande non era ancora diffuso tra le donne), prima gli fracassò la testa col bastone di legno che usava per battere il bucato, poi gli sottrasse la bandiera e, infine, lo scaraventò giù dalle mura.
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