Curioso paese il nostro anche nel calcio giocato, parlato e scritto. Nel 1970 dopo trentadue anni l’Italia ritrovò la via della finale ai mondiali messicani eliminando la Germania con il mitico 4 a 3 su cui si sono scritti romanzi generazionali, costruiti film e quant’altro. In finale incrociammo il Brasile intrattabile di Pelé e fummo sonoramente bastonati dopo aver, per autolesionismo gerarchico, escluso Giovannino Rivera, il solo in grado di rivaleggiare dal profilo tecnico coi carioca. Tornammo a casa e furono insulti, pomodori e ortaggi. Un comportamento avvilente, coerente del resto con le pulsioni anarcoidi che attraversano di tanto in tanto il corpo sociale nostrano. Seguirono poi le vittorie mondiali del 1982 e del 2006, un paio di secondi posti molto onorevoli, nel mezzo la brutta figura coreana a guida Trapattoni 2002 e quella sudafricana targata Lippi due (2010).
Domenica scorsa al termine di un percorso virtuoso ci siamo immolati alla superiorità netta e universalmente accettata degli spagnoli. Ed ecco emergere una nuova sorprendente retorica, quella della sconfitta onorevole “a testa alta” come si usa dire. Cesare Prandelli sugli scudi come è giusto che sia riconoscendogli il grandissimo merito di aver, speriamo per sempre, sottratto il gioco della nazionale alle angustie imbarazzanti e furbastre della difesa con ogni mezzo e del contropiede. Filosofia peraltro ben assimilata e praticata da squadre come il Chelsea, campione d’Europa, del resto guidata dall’italico Di Matteo fedelissimo del cosiddetto gioco all’italiana nel quale è cresciuto.
Non solo ha innovato tatticamente il prode Cesare da Orzinuovi, è andato oltre affermando che bisogna costruire nuovo calcio offensivo favorendo il ricambio generazionale – leggi vivai giovanili – e dando più spazio alla nazionale strangolata dagli egoismi di bilancio dei club e dalle programmazioni dettate dai budget televisivi. Considerazioni abbastanza evidenti che vanno però a scontrarsi con gli interessi economici dei network TV che in cambio di soldi, troppi soldi, impongono il tutto e subito, dettano i calendari e fanno il bello e il cattivo tempo.
Per avere buone probabilità di riuscita la rivoluzione prandelliana deve però cominciare dallo stesso CT. Serenamente dovrà dare un’occhiata alle carte d’identità dei suoi prodi e prendere atto che ai mondiali brasiliani 2014 Buffon avrà trentasei anni, Pirlo trentacinque, Chiellini trentadue, Barzagli trentaquattro, Cassano trentadue, Balzaretti trentatre. Cesare Prandelli dovrà da quasi subito sfatare una verità storica dei selezionatori italiani e non solo, quella che li vuole vincenti e perdenti (quasi) sempre con gli stessi giocatori. In questo senso un indizio non proprio incoraggiante lo si è avuto nella finale di domenica scorsa quando, sia pure per comprensibile riconoscenza – ma nel calcio è di solito una cattiva consigliera – ha messo in campo un Chiellini in visibile imbarazzo fin dai primi minuti e un Thiago Motta già discretamente imbolsito di suo. E forse sarebbe stato preferibile rinunciare in avvio anche a un Cassano a scadenza prestabilita in favore di un Diamanti più fresco e spregiudicato. Come diceva Gianni Brera meglio avere in campo asini vivi al posto di dottori morti. Ma si sa non esiste controprova. Il buon Cesare a bocce ferme e confortato dal plebiscito a suo favore di critica e tifo ha ammesso comunque l’errore affettivo. Faccia però attenzione al fatto che la nuova retorica della “sconfitta a testa alta” e del collettivo virtuoso, potrebbe avere vita assai breve nel paese dove, come sosteneva – credo – Leo Longanesi. “la sconfitta è orfana e la vittoria ha cento padri”. CT avvisato…
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