L’euro rappresenta la prima economia del mondo con un prodotto interno lordo superiore a quello degli Stati Uniti d’America. La sua crisi è solo marginalmente di natura economica e le difficoltà attuali sono sostanzialmente politiche.
La moneta unica adottata da diciassette Paesi dell’Unione Europea su ventisette componenti è stata però creata, all’inizio del secolo, con un vizio di origine: la mancanza di una autorità centrale capace di coordinare le politiche di bilancio, quelle fiscali ed economiche; la moneta è comune ma ciascun Stato si autogoverna come crede.
Nel 2003 l’autorevole settimanale “The Economist” aveva indicato la Germania come “il malato d’Europa” ma, da allora, la classe dirigente tedesca ha realizzato una serie di riforme che hanno raddrizzato i conti pubblici e colmato la distanze con le regioni orientali depresse a seguito della preesistente occupazione sovietica.
Con l’euro le merci tedesche hanno avuto la meglio sui mercati dell’Eurozona senza che le altre economie fossero in grado di contenere il dinamismo produttivo della Germania.
Altri Paesi, tra cui l’Italia, non hanno seguito tale esempio virtuoso ma hanno utilizzato l’euro per dilazionare nel tempo le impopolari riforme annunciate e necessarie.
Se l’euro resiste ed è tuttora quotato più del dollaro, non altrettanto si può dire dei “bond” emessi dai Paesi mediterranei, come Italia, Spagna, Portogallo e Grecia, per finanziare i loro imponenti debiti pubblici.
Fino a qualche tempo fa i nostri Buoni del Tesoro (e in genere le obbligazioni) erano accettati dai mercati finanziari, adesso sono fatti oggetto di una paradossale e incredibile pressione speculativa e la loro collocazione avviene con un interesse esorbitante che concorre a mantenere alto il nostro debito pubblico.
Di questo passo diventa più difficile finanziare il debito e nell’Eurozona si è venuta a creare una situazione asimmetrica che privilegia i Paesi forti che possono fruire di tassi d’interesse molto bassi mentre quelli deboli debbono pagare un prezzo salatissimo che aggrava le loro difficoltà.
L’accordo ottenuto, con una strategia accorta e decisa, dal nostro Presidente del Consiglio, il varesino Mario Monti, a Bruxelles nel chiedere l’utilizzazione del “Fondo Salva Stati” per calmierare lo “spread” tra i nostri Buoni e quelli tedeschi, è un provvedimento d’emergenza che può capovolgere la tendenza in atto e spianare la strade ad una Europa più coesa e solidale.
La situazione è ulteriormente complicata dalla “finanziarizzazione” dell’economia a livello mondiale. Nel capitalismo tradizionale, di tipo “fordista” il denaro veniva investito per produrre merci e ricavare dalla loro vendita una quantità di denaro maggiore di quella investita, cioè il reddito, chiamato profitto o rendita.
Il nuovo capitalismo finanziario ha invece come centro e motore il sistema internazionale della finanza e persegue l’accumulazione di capitale saltando la fase intermedia della produzione di merci; in altre parole il denaro viene impiegato, investito, fatto circolare sui mercati finanziari allo scopo di produrre immediatamente altro denaro.
Lo sviluppo di un sistema finanziario basato sul debito privato e pubblico, rappresentato da titoli di credito, ha fatto sì che gli attivi finanziari superino di almeno quattro volte il PIL (Prodotto Interno Lordo) del mondo. È una mole impressionante di “denaro” creata dalle banche e da molteplici istituzioni finanziarie che gli Stati non sono più in grado di controllare mancando regole di funzionamento e che costituiscono uno strumento formidabile di pressione dei mercati contro i sistemi economici anche dei Paesi più forti.
Si misura qui l’irrazionalità della nuova economia finanziaria sorretta dalla ideologia neo-liberista che vede il risparmio privato (costituito anche da “fondi pensioni”) speculare contro il debito pubblico, creando una dicotomia insostenibile: quella del risparmiatore che investe in titoli per guadagnare e quella delle banche che utilizzano questa massa di risorse contro di lui in quanto cittadino di uno Stato.
Per vincere la speculazione globale e la conseguente crisi economica occorrerebbe una Unione politica che uniformi le politiche di bilancio, fiscali ed economiche quanto meno a livello di Eurozona che comporta, è vero, il sacrificio di una parte di sovranità nazionale, residuo di una concezione nazionalistica esasperata, ma sarebbe in grado di realizzare un più alto senso di responsabilità e di solidarietà in un mondo divenuto interconnesso.
A questa meta è però di ostacolo la scarsa consapevolezza delle masse che sono assai più sensibili alle facili lusinghe del populismo e del particolarismo.
Da vent’anni l’Italia è dominata da una cultura politica settaria, irrazionale e spesso anti-europea come quella espressa dalla Lega, dalla Sinistra radicale, dal Movimento di Grillo e da alcuni settori del Partito di Berlusconi.
Nessuno osa dire la verità: fuori dall’Europa la nostra economia non potrebbe sopravvivere; il ritorno alla Lira polverizzerebbe immediatamente i nostri risparmi e il potere d’acquisto e ritornerebbe l’inflazione a due cifre che penalizzerebbe stipendi e pensioni: sarebbe un balzo indietro di mezzo secolo.
Una cittadinanza che, spesso e volentieri, si affida ad una politica irresponsabile che rimette continuamente in discussione i principi fondamentali dello Stato di diritto, della democrazia parlamentare e della stabilità della moneta costituisce una oscura minaccia sul nostro futuro.
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