Ha preso il via – secondo tradizione- il rituale valzer delle panchine.
Quelle ancora calde di un posteriore più o meno prestigioso che già si sentono occupate, invase, da un altro. Se fosse loro concesso diventerebbero libere docenti di misure di fondi schiena. Inutile sottolineare come, in questa loro specializzazione, auspicherebbero di essere oggetto di scelte non troppo sproporzionate: “di peso” va bene ma sotto il profilo della capacità non della dimensione.
Panchine che restano (almeno quelle). Uomini che vanno e che vengono: spesso senza avere nemmeno il tempo di pendere confidenza con il posto, e tanto meno quello di ringraziare per l’ospitalità.
È un destino di approcci senza ricordi nemmeno lontanamente imparentato con quello dei pendolari certamente favoriti dal lungo tempo nel rapporto di amicizia con i sedili del treno.
E così a Varese sul trono ( in fondo questo è la panchina per gli allenatori) del Franco Ossola, dopo esserne stato, senza complimenti, deposto, arriva un po’ di tempo dopo Sannino non privo di una certa diffidenza ad appoggiare nuovamente il retro dei pantaloni in quel punto da cui erano stati allontanati, con discreta violenza, qualche anno prima.
E stavolta la panchina (più che ospitale) diventa addirittura d’oro piena d’orgoglio e di gioia.
Anche senza magari comprendere perché, in precedenza, l’indoratore attuale era stato costretto ad allontanarsi a passi lunghi e ben distesi. Ma cosi è la vita.
E la panchina soffre pensando che il prossimo arrivo orefice non potrà più essere. E invece no! Con ovvia soddisfazione prende atto che non potrà arrivare l’oro perché per due anni consecutivi non si usa ma il nuovo venuto fa addirittura giochi di prestigio. Si chiama Maran e non arriva alla A ma c’è chi non capisce perché.
E allora, si domanda la panchina, non poteva restare? Questioni economiche e di ambizioni ma le mie – pensa lei, la panchina – le mie di ambizioni chi le considera? E comincia a sperare in un posteriore di peso. Sempre tecnicamente si intende.
La speranza si chiama Castori. E, con la panchina, spera tutta una città.
* * *
Quella del basket c’è rimasta un po’ male. Neppure il tempo di soffermarsi a considerare che il “peso” di Carlo Recalcati era pur accettabile che se lo vede volar via di sopra. Ma, come. Non era stato confermato? Pareva un sì. E invece era un no.
Questo Vitucci in arrivo lei non lo conosce proprio assolutamente digiuna com’è dei suoi sacri lombi. Va beh! Stiamo a vedere e, anche qui, spera insieme, un’altra volta, a tutta Varese.
Cambi e poi ancora cambi sempre accompagnati dalla stessa musica: il valzer.
Talvolta cambi –magari spesso- anche difficili da capire. Talaltra comprensibilissimi quando non ineluttabili.
Quello più che comprensibile è stato uno eclatante: quello conseguente alle dimissioni di Fabio Capello da CT della nazionale inglese.
Si è motivato il distacco con il rifiuto del CT di accettare la degradazione, ad opera della Federazione inglese, del capitano della nazionale John Terry. Da tale qualifica spodestato per avere offeso, con epiteti razzisti, Ferdinand difensore di colore del Queen’s Parck Ranger.
La realtà sembra – con un certo fondamento – del tutto diversa.
Pare, infatti, più verosimile che Capello – pur avendo portato la nazionale a buoni risultati numerici ma mai arrivando ad un’apprezzabile qualità di gioco – dopo essersi a lungo soffermato sull’orizzonte calcistico britannico senza ricavarne il benché minimo sprazzo di luce – abbia colto l’occasione di un dissenso interno per lasciare un ambiente, allo stato calcisticamente parlando, sconsolante.
Ha capito, insomma, il “nostro” che dalle rape non si può cavare un vino (da buon friulano) almeno bevibile e che la situazione, se non altro, al momento, non poteva presentare miglioramenti stante la totale assenza di uva.
E la men che mediocre prova fornita dai figli di Albione nei confronti di una eccellente nazionale azzurra, degna di ben più consistente successo rispetto a quello ottenuto, pare dare buon appoggio alla teoria di un Capello … in fuga.
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