Una filastrocca del geniale Gianni Rodari termina con un ironico sberleffo: “Andranno sui pianeti / e faranno cucù / a noi poveri terrestri / rimasti quaggiù”. Poveri terrestri siamo rimasti anche da quel lontano 12 aprile 1961 quando un ventisettenne russo dagli occhi grigi ghiaccio segnò davvero – e non era una favola – l’inizio di quell’era chiamata spaziale.
Jurij Days si festeggia ancora in molte parti del mondo ma mai come ora ritornano in mente le parole di una canzone – forse non notissima – di Claudio Baglioni intitolata Gagarin. Quell’aprile si incendiò. Al cielo mi donai Gagarin figlio dell’umanità. E la terra restò giù più piccola che mai. Io la guardai, non me lo perdonò.
Chissà che cosa avrebbe dovuto perdonare la terra a Jurij, il cui nome per ironia etimologica significa lavoratore della terra? Lui dall’oblò della Vostok1 comunicò di vedere il cielo nero e la Terra azzurra sotto di lui, quasi vicina. E al ritorno disse: «Orbitando intorno alla terra nella navetta spaziale rimasi esterrefatto della bellezza del nostro pianeta. Cittadini del Mondo! Proteggiamolo e ampliamo la sua bellezza, non distruggiamolo». Non è un caso che Picasso fece delle serigrafie dedicate a Gagarin i cui occhi punteggiavano una colomba di pace.
Forse più che perdonare oggi dobbiamo con rabbiosa malinconia ripensare alla storia e di come quell’imperativo sia stato poco ascoltato. Quel 12 aprile, con un razzo lanciato da un cosmodromo del Kazahistan con un uomo, novello Cristoforo Colombo, si disse, non può davvero essere dimenticato. O meglio non si può non riflettere sulla corsa alla conquista dello spazio iniziata convenzionalmente con la messa in orbita nel 1957 dello Sputnik, il primo satellite artificiale.
Conquista dello spazio, collegata – a dire il vero – anche alla corsa agli armamenti delle due superpotenze di allora, USA e URSS, nella guerra fredda. Si inneggiava alla tecnologia, si giustificavano i folli investimenti come un servizio al progresso umano. È innegabile che la ricerca trasse dei benefici ed ebbe ricadute in vari campi. Ma la domanda di allora rimane drammaticamente attuale. Bisogna investire negli armamenti? Non riusciamo a proteggere la bellezza del mondo? Sono patetiche e ingenue domande retoriche? Non si può lasciare la risposta ai posteri di questa ardua sentenza. E non possiamo neppure consolarci a pensare che la follia umana non è eliminabile. Il che non ci impedisce di cercare alternative, come, a volte la letteratura, sa darci.
Si potrebbe rileggere un racconto, o romanzo breve di cento anni fa, Les navigateurs de l’infini. Per alcuni si deve all’autore, il francese Rosny aîné, il merito di aver coniato proprio nel 1925 il termine “astronauta”. La storia della parola è molto più complessa ma poco importa. Conta la trama di quel romanzo, che dovrebbe appassionare non solo i cultori di fantascienza. È il racconto di un immaginario viaggio su Marte, ben diverso da chi, come un certo signor Elon Musk, auspica il turismo spaziale. Si tratta – come spiega la quarta di copertina – dell’esplorazione “in un ambiente ostile e dell’incontro di un gruppo di scienziati terresti con una stirpe aliena in difficoltà. Superata la naturale diffidenza, i protagonisti avranno modo di scoprire, comprendere e apprezzare la civiltà extraterrestre, dando vita ad un rapporto di collaborazione e di rispetto reciproco”.
Certo è un romanzo di fantascienza e si capiva chi fosse il nemico. Forse è più difficile scrivere la storia politica di oggi, in cui diventa fantascientifico fare un viaggio non dalla Terra alla Luna ma al contrario. A noi poveri terresti non basta neppure consolarci a guardare, come è successo all’inizio di aprile, l’abbraccio astronomico tra la Luna e Marte. Abbiamo bisogno di ben altro.
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