Nel manifesto di Rio +20 “The future we want” (Il futuro che vogliamo), insieme ai valori di libertà, pace e sicurezza, rispetto dei diritti umani ed in particolare quello di uno sviluppo democratico, i Grandi della Terra riaffermano la necessità dell’uguaglianza fra i generi ed il rafforzamento del potere alle donne – “empowerment” deriva dal sostantivo inglese “power”, potere.
Il futuro di tutti dipende dalle donne, il loro ruolo è vitale, dicono. La situazione più urgente è quella dei paesi meno sviluppati ed in particolare dell’Africa, dove oltre un miliardo di persone vivono sotto la soglia di povertà e moltissimi non hanno cibo a sufficienza: qui le donne possono esercitare piccole attività agricole o artigianali sfruttando le risorse dell’ ambiente rurale – vere icone di “economia verde” a gestione familiare; sono pedine importanti del sostentamento comunitario anche in quanto “guardiane” della sicurezza del cibo prodotto e della sua disponibilità per la crescita dei bambini. Queste donne sono considerate una categoria vulnerabile: la loro subalternità fisica, sociale, ed economica all’interno della comunità è massima perché massimo è il rischio di sopravvivenza. Quindi vanno protette e accompagnate in un percorso di educazione alla crescita sociale: hanno bisogno di apprendere tecniche per le attività agricole, di supporto da un punto di vista legale, ma anche sanitario, e di microcredito se sono riunite in piccole cooperative. Fin qui l’empowerment delle donne è un concetto chiaro – promosso, nei limiti della situazione di crisi globale, dai Paesi più sviluppati.
In questi ultimi, cioè nell’altra metà demografica del pianeta, è diverso ma non meno arduo il cammino dell’ emancipazione femminile. L’ottica si sposta dall’ambito prevalentemente rurale a quello urbano, toccato da una spaventosa evoluzione demografica: nel secolo scorso solo il 10% circa della popolazione viveva nelle città, oggi siamo al 50% e si stima che entro trent’anni arriveremo al 75%. Il concetto generale, anche qui, è che le donne dovrebbero avere la possibilità di imparare ad esercitare il proprio potenziale, e che dovrebbero essere garantiti loro benessere, salute e occupazione. Uomini e donne, dice il Manifesto, devono avere pari possibilità di accesso alle opportunità e alla formazione professionale e godere di protezioni sindacali (“worker protections”). Vengono richiamate la Convenzione Contro Ogni Forma di Discriminazione, Agenda 21, la Dichiarazione di Pechino, la Dichiarazione degli Obiettivi del Millennio, … etc etc… però, pian pianino, ci accorgiamo che scompare il ruolo della donna come perno della famiglia, eccetto quel piccolo accenno, proprio due righine che parlano di “informal unpaid work” (è al limite del grottesco quell’ “informal”, che in italiano suona: “senza tante formalità”). I Grandi Sottoscrittori ammettono che “il lavoro senza formalità e non pagato, svolto principalmente dalle donne, contribuisce sostanzialmente al benessere dell’umanità intera e al suo sviluppo sostenibile”. Più avanti il Manifesto di Rio +20 afferma che “a causa, tra altri fattori, di persistenti ineguaglianze sociali, economiche e politiche, non si è pienamente realizzato il potenziale delle donne a impegnarsi, a contribuire, a partecipare come leaders e agenti di cambiamento, ma anche beneficiare dallo sviluppo globale…”.
In tutta questa vaghezza di definizioni, ”tra altri fattori non meglio identificati”, è rimasto solo il lavoro come unità di misura per calcolare il valore delle donne nella famiglia e quindi nella comunità? Viene il dubbio che si intenda: ben venga che le donne si diano di più da fare, diamo loro più lavoro e maggiori responsabilità, meglio se senza tante formalità…quanto al beneficio, si fa per dire, vedremo.
Eppure, non è banale soffermarsi a riflettere che tipo di difficoltà sorgono per il fatto di essere donna, oggi. La donna è al centro di tutto: della famiglia che ha sempre la priorità, della cura dei figli piccoli o, a seconda dell’età, dei nipotini, dell’aiuto ai genitori sempre più anziani e bisognosi di assistenza, e poi via con i mestieri di casa, corri di qui, corri di là, il lavoro, quando c’è e se c’è, a volte è un percorso ad ostacoli (la parità di genere in Italia, oggi, si tutela in ambito meramente lavorativo, in base alla delega del Ministro del Lavoro: agli Uffici delle Consigliere ci si può rivolgere in casi purtroppo ancora diffusi come dimissioni in bianco, mobbing e vari tipi di violenze psicologiche sul luogo di lavoro inclusa l’incoraggiamento a dimettersi durante il primo anno di vita del figlio).
Per essere oggettivi ci torna in aiuto l’ISTAT con una folgorante fotografia tratta dall’ultima Indagine sull’Uso del Tempo (2009): le donne italiane, se hanno preso la decisione di lavorare e avere dei figli, in una giornata media svolgono circa quindici attività diverse frammentate in ventiquattro episodi e trascorrono circa un quinto del tempo totale svolgendo più attività contemporaneamente. E vi sorprendete se alcune arrivano a prendere la decisione di non lavorare e non avere dei figli? È così che si pensa di restituire concretamente il famoso “beneficio da sviluppo globale” alle donne?
Mentre mi sto dedicando al mio “lavoro informale non pagato” che sostiene la crescita del mondo, al TG lo speaker legge i titoli su Rio +20: “Le Nazioni Unite sono risolute a sbloccare il potenziale delle donne come agenti dello sviluppo sostenibile per il nostro pianeta”… In attesa del prossimo Meeting sui Problemi del Mondo e del prossimo Manifesto per il Futuro del Pianeta, i Potenti della Terra si ringraziano e si salutano. Nelle loro dimore li attende un esercito di sorridenti domestiche che fanno la spesa, cucinano, puliscono, riordinano, lavano, stirano …
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