Generalmente, di fronte all’inconsueto e all’incognito, quando è difficile raccapezzarsi, si fa ricorso
all’esperienza, al sapere, al passato. Il senatus dei Romani, l’assemblea dei più anziani, era un modo per attingere alla loro riserva di conoscenze, da mettere a frutto nei momenti difficili. Insomma, quando qualcosa sfugge alla comprensione, ci affidiamo alla memoria, alla storia.
E invece, non abbiamo precedenti per comprendere quel che sta succedendo adesso in Europa e nel mondo. Niente che abbia dei tratti conosciuti. Il nuovo presidente USA, appena eletto, mena botte a destra e a manca come un tarantolato, affiancato da un altro tarantolato, miliardario, con qualche nostalgia paranoide di stampo nazista, produttore di automobili e di razzi satellitari, che è riuscito a diventare la mano e il piede dell’esecutivo statunitense. Da un mese a questa parte, il nuovo presidente è lì che sbraita per ogni cosa. Vuole la Groenlandia, il Canada, lo Stretto di Panama, la Striscia di Gaza per farci un resort (da rabbrividire!). Probabilmente anche la Fontana di Trevi. Magari col Totò di turno.
Agli Ucraini chiede le terre rare, fino alla concorrenza di un importo di 500 miliardi di dollari, a risarcimento delle spese sostenute per la guerra in corso. Un vero e proprio strozzinaggio, se è vero che la cifra effettivamente stanziata dalla precedente amministrazione è solo la metà di quanto si pretenderebbe di avere indietro. Per di più, si rivolge ad un presidente regolarmente eletto, Zelensky, facendolo passare per un impostore, sbeffeggiandolo e dandogli del comico di poco talento (ma a che pro?). E chiude con una menzogna astrale, sostenendo che l’invasione russa non è stata un’invasione, ma qualcos’altro. E quindi, probabilmente, pensa che siamo tutti scemi a starlo ad ascoltare.
Dunque, improvvisamente, si palesa uno scenario sconosciuto, lontano da quel che conoscevamo. Perché per noi, finora, gli USA erano la quintessenza della democrazia. Erano la nazione che ci ha salvato dal nazismo e dal fascismo. Erano il paese della libertà. Ma forse, a ben guardare, non è mai stato tutte rose e fiori. Forse, siamo rimasti abbagliati dalla propaganda e abbiamo idealizzato qualcosa che non è mai esistito. Perché anche noi abbiamo pagato un prezzo per gli aiuti ricevuti. Un prezzo salato, a partire dal mitico «Piano Marshall», sottoscritto due anni dopo la fine della guerra, celebrato anche di recente come il toccasana di tutti i mali che, tradotto in soldoni, fu un esborso di 12,7 miliardi di dollari. Una bella cifra anche adesso.
Ma non fu un regalo. A fronte di quell’elargizione dovemmo sottoscrivere il cosiddetto patto di protezione solidale in funzione anticomunista. Cioè, c’impegnammo a lasciar fuori il partito comunista dal governo del Paese, per avere protezione politica, economica e militare degli USA. E fin qui, tutto sommato, si può anche capire. Una scelta da derubricare – a fatica – ad accordo politico. Ma in realtà fu molto di più. Fu un do ut des che implicava l’”«ingerenza» della politica d’oltre Oceano negli affari politici interni dei paesi controllati”. Cioè, l’America dopo quella firma, a fronte del corrispettivo in danaro, poteva entrare e uscire a piacimento dai nostri affari interni – come in effetti fece -, combinandone di tutti i colori. Diventammo il teatro impazzito di iniziative illegali che hanno causato in “poco più di un decennio (1969-1980) centinaia di morti e feriti, [che] hanno sconvolto l’ordine pubblico e la convivenza civile, condizionato la vita politica e istituzionale, vulnerato la sovranità popolare posta a fondamento della Repubblica”. Gli anni di piombo.
Il Piano Marshall fu (anche) questo. E quindi adesso non bisogna meravigliarsi troppo di quel che sta succedendo con l’Ucraina (di certo, non manca una bella dose di cinismo in più, se si parla di affari mentre si è ancora in guerra, in mezzo a morti e feriti). La novità, semmai, sta nel fatto che se ne parli apertamente, a gran voce, sfoderando protervia e violenza verbale inusitati, mentre in passato passava tutto sotto silenzio. Dunque, la memoria serve sempre. Serve a orientarci, per non rifare gli stessi errori. E va alimentata di conoscenze che non avevamo, come quelle che si trovano ben scritte nel libro curato da Angelo Ventrone, L’Italia delle stragi, Donzelli, 2019, da cui i virgolettati.
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