“Quando ero più giovane e mi capitava di incontrare un ottantenne pensavo: “E’ proprio vecchio…”. E adesso tocca a me… Però, in tutta sincerità, a parte qualche acciacco, non me li sento”.
-Ha in programma qualche particolare festeggiamento?
“No, nessun festeggiamento. Festeggerò quando mia moglie tornerà a casa dalla struttura dove è ricoverata per la riabilitazione dopo un problema di salute che ha accusato nello scorso mese di dicembre”.
-Sua moglie Luisella, i suoi figli, la sua famiglia… I valori fondamentali.
“Assolutamente sì. Ho conosciuto Luisella nel 1961: eravamo compagni di classe, lei era nel banco davanti al mio e mi rubava le penne… Siamo insieme dal 1964. Mi spiace contraddire qualche sportivo ma io per la famiglia ho rinunciato a una Olimpiade; nella mia scala di valori la famiglia viene prima dello sport o della professione. Giancarlo Gualco mi disse che mi sarei pentito di quella rinuncia, in realtà non è successo: lo rifarei anche oggi”.
- La sua è una famiglia di sportivi. Suo fratello Franco fu un giocatore del grande Torino, Cicci ha avuto una bellissima carriera di calciatore anche in serie A. Franco è scomparso quando lei non aveva ancora 4 anni, Cicci aveva 7 anni più di lei: che cosa le hanno insegnato sul piano sportivo?
“Franco fece in tempo a dire a mia madre: ‘I miei fratelli, prima di dedicarsi eventualmente allo sport, dovranno prendere un diploma’; e così è stato. Cicci, prima di dedicarsi al calcio, era un ottimo cestista; allora non c’era la televisione che trasmetteva ogni cosa di sport, per cui un esempio visivo importante credo sia stato per me fondamentale (anche lui era un playmaker), tanto più che molti sostenevano che se avesse continuato con la pallacanestro sarebbe stato più bravo di me”.
- Il tempo passa e i ricordi della grande Ignis si allontanano: le dà fastidio questo progressivo ma ineluttabile oblio, anche nella sua città, tra i tifosi di oggi del basket?
“Mi dà un po’ fastidio quando qualcuno mi dice che veniva a vedermi giocare quando era bambino… Scherzo naturalmente… In questo mondo conta soltanto apparire, essere in prima fila: a me, al contrario, piace stare appartato, defilato. A volte mi capita di ripensare a quando giocavo e il ricordo mi sembra riferito a un’altra persona…”.
- Nella sua carriera avrà ricevuto moltissimi complimenti: quale il più gradito?
“Devo tornare molto indietro nel tempo, alle parole di Giannino Asti, mio allenatore alla Robur et Fides. Gianni parlava poco ma quelle poche parole erano sempre efficaci e un suo complimento per me valeva moltissimo”.
- Che cosa, più di tutto, ha contribuito a “costruire” Aldo Ossola, in campo e fuori campo?
“Sono cresciuto in un ambiente in cui certi valori erano assolutamente importanti, valori che ho poi ritrovato nella Ignis diventata così vincente; alludo soprattutto ai rapporti personali, all’amicizia sincera che in una squadra è fondamentale. Sul piano tecnico, ricordo che a fine stagione non si staccava mai: il professor Nikolic organizzava due o tre settimane di allenamenti dedicati ai fondamentali e a quelle cose in cui si era meno bravi; esattamente ciò su cui si lavorava anche alla Robur et Fides…”.
- Quanto è stato importante per Aldo Ossola avere per compagni giocatori del calibro di Meneghin, Raga, Morse e le tante altre star della grande Ignis e quanto lo è stato per loro avere Ossola come playmaker?
“Beh, avere come compagni giocatori così forti… dovevo solo scegliere a chi dare la palla! Il mio è stato anche un lavoro un po’ di sacrificio, in particolare in difesa toccava a me marcare le guardie più pericolose (Belov e Recalcati, per citarne solo un paio). In ogni caso, pur non essendomi mai reputato un numero uno, mi sono sempre sentito molto considerato. E poi durante le partite, per il mio ruolo di playmaker, sono stato sempre il filo diretto con l’allenatore in panchina. Il tiro? E’ vero, spesso vi ho rinunciato, ma in squadra c’era chi tirava molto bene…”.
- Una domanda che le avranno rivolto centomila volte: quale la vittoria più bella?
“Potrei rispondere la conquista della prima Coppa dei Campioni a Sarajevo nel 1970 o la vittoria nello spareggio scudetto di Roma nel 1971 (l’ho già fatto), ma dico invece che ogni vittoria è stata figlia di un momento particolare, frutto del bellissimo rapporto che si era creato in quella bellissima famiglia che era la squadra, con tutti i suoi componenti” .
- Che ci dice del basket di oggi?
“Non mi piace, sono un bel po’ disaffezionato. Nel mio basket il massimo era il perfezionamento del gioco corale, di squadra (lo dico da playmaker) e l’obiettivo era lavorare per costruire il miglior tiro vicino a canestro. Il tiro da tre punti ha cambiato tutto e ora il gioco è solo velocità e fisicità, con la ricerca della conclusione più rapida possibile. Ricordo che a un torneo ad Antibes nel 1964 vedemmo per la prima volta un giocatore americano che schiacciava a canestro: restammo tutti a bocca aperta! Ora lo fanno tutti…”.
- Che cosa direbbe a un bambino che comincia a giocare?
“Che deve soprattutto divertirsi, senza porsi particolare traguardi. E poi curare al massimo tutti i fondamentali, che sono la vera base del gioco”.
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