Chissà che Trump non riesca dove noi abbiamo fallito. Noi europei. Un insieme affatto tale. Ci dividono il passato, il presente, le idee. Cioè il retropensiero, l’egoismo, la strategia. Difatti l’unica percorribile in concreto parve, nel post-bellico di ottant’anni fa, una federazione di stati, d’accordo su poche e cruciali scelte per necessità. Non per convinzione.
L’Europa, pur fedele nella sua geografia politica a libertà/democrazia, si unì causa necessità economica e poco più. Il resto, un’aspirazione. Meglio: un giusto traguardo. Però, fino ad oggi, mai davvero tagliato. Troppe diversità, troppe resistenze, troppe vecchiezze. Così il progetto (un progettone, qualora attuato) non ha mai preso l’abbrivio. Peccando di miopia nel mondo globale che esige d’esser giganti se vuoi (1) sopravvivere prima che (2) competere.
Chissà che Trump non riesca dove noi abbiamo fallito. Gli sberloni che ci tira aiuteranno magari l’opportuno/inapplicato proposito. L’Ue ovvero qualcosa di veramente coeso, armonico, epocale nel senso di persuasa adesione di tutte le parti del continente. La risposta immediata non può che affidarsi a un cemento, per così dire, emergenziale: facciamo muro alla valanga bullo-yankee, sperando che la barriera tenga e lo smottamento si fermi. Ma la risposta d’orizzonte dev’esser diversa. Basata sulla riforma strutturale/istituzionale di un’area politica bisognosa di vocazione concreta se vuol costituirsi e durare nei decenni a venire. Il federalismo, appunto. Declinato in una forma inedita, moderna, lungimirante e tuttavia ancorato ai suoi princìpi fondanti, alla sua natura di virtuosa spartizione di potere e servizi, al suo afflato etico e allo stesso tempo al suo senso pratico, alle sue radici numerose che possono fruttificare solo se rimangono affiancate l’una all’altra, senza sovrapposizioni/soffocamenti.
Chissà che Trump non riesca dove noi abbiamo fallito. A farci capire che, oltre al gong del momento critico, è suonata l’ora della rivoluzione mite, saggia, ineludibile. Con obiettivo la fondazione di un’Europa 2.0 che respira aria di rinnovamento, guarda lontano, convince quanti desiderano appartenervi a rinunziare a un’inutile/dannosa quota di sovranità nazionale in favore d’una utile/preziosa quota di sovranazionalità funzionale alle sfide planetarie con America, Russia, Cina eccetera. Avvertiamo l’urgenza di diventare cittadini d’una diversa e importante quota di mondo, e sarebbe imperdonabile far prevalere il miope provincialismo spacciato per indole patriottica. Ciascuno potrà rimanere sé stesso solo a patto che tutti si riconoscano in una differente collocazione sullo scenario internazionale. Come direbbe il profeta del Maga nel suo brusco slang, ecco la carta da calare sul tavolo della contemporaneità mettendo in ambasce il detentore del banco. Fin quasi a fargli temere che possa saltare: democrazia e libertà sono una miscela esplosiva, se bene adoperate.
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