Mi dà fastidio che Mario Draghi parli in inglese anche quando prende la parola al Parlamento Europeo. Capisco che lo faccia quando parla in sede internazionale, e tanto più se si rivolge a una platea di banchieri, ma in sede di Europarlamento ci si deve attendere che un europeo parli nella propria lingua. Ciò premesso ritengo che del discorso, da lui pronunciato a Bruxelles, vadano colti sia i grandi pregi che i grandi limiti.
Riassumo in primo luogo i grandi pregi. Prendendo spunto dal suo Rapporto all’Ue — presentato nel settembre 2024 a Ursula von der Leyen che glielo aveva richiesto — Draghi ha detto che la necessità di un “cambiamento radicale sostenuto dal Rapporto è diventato ancora più forte”. Ha poi sollevato il problema del gas naturale, i cui prezzi “rimangono molto volatili”, e quello delle “crescenti minacce alle infrastrutture sottomarine” sottolineando “l’imperativo di sicurezza di sviluppare e proteggere le nostre reti”. Di fronte a tutto questo occorre “far rivivere lo spirito innovativo del nostro continente”, e (…) “ riacquistare la capacità di difendere i nostri interessi”.
“Potremmo anche trovarci di fronte – ha sottolineato inoltre Draghi – a politiche ideate per attirare le aziende europee a produrre di più negli Stati Uniti, basate su tasse più basse, energia più economica e deregolamentazione. (…) Inoltre è possibile che possiamo restare “in gran parte soli a garantire la sicurezza in Ucraina e nella stessa Europa”.
Questa la sua analisi della situazione, per affrontare la quale egli stima un fabbisogno finanziario “enorme: 750-800 miliardi di euro all’anno è una stima prudente”. Sin qui il discorso è ineccepibile, Quando però Draghi giunge al momento delle proposte torna a galla il tecnico, anzi il tecnocrate: “per affrontare queste sfide”, dice, “è sempre più chiaro che dobbiamo agire sempre più come se fossimo un unico Stato”. Non si pone minimamente il problema della natura autoritaria di ciò che propone indicando che “alla Commissione venga dato tutto il sostegno necessario sia nell’attuazione di questo programma che nel suo finanziamento”.
La giustificazione è la solita in circostanze del genere ossia che “la risposta deve essere rapida, perché il tempo non è dalla nostra parte, con l’economia europea che ristagna mentre gran parte del mondo cresce”. L’Unione Europea però non è uno Stato ma soltanto un’alleanza. Possiamo dispiacerci che sia ancora soltanto questo, ma così stanno le cose. E continuare a concentrare poteri nella Commissione, che è un organo tecnico sostanzialmente non eletto, non può comunque che aggravare la sua carenza di legittimazione e quindi di consenso popolare.
La risposta alla situazione deve certamente essere rapida, ma questo è un motivo di più per avviare il processo di trasformazione dell’Ue in uno Stato federale con un presidente eletto dal popolo e non dagli Stati membri. E nel frattempo puntare a fare non della Commissione ma del Consiglio Europeo, composto dei Capi di Stato e di governo dei Paesi membri, il vero luogo di iniziativa politica dell’Unione. Il Consiglio infatti è l’organo di vertice dell’Unione relativamente più legittimato da un punto di vista democratico, e quindi più in grado di dare rappresentanza ed eventualmente di chiedere sacrifici ai cittadini europei.
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