Fu una delle rare volte nella sua straordinaria vita partigiana che Quinto Bonazzola, 21 anni, ex liceale al “Cairoli”, studente universitario in lettere e filosofia, allievo di Antonio Banfi, famiglia della borghesia antifascista varesina (il padre Giancarlo, noto medico dentista, dal febbraio 1945 successore di Eugenio Curiel alla testa della Brigata d’Assalto del “Fronte della Gioventù” di Milano), abbandonò per mezza giornata la bicicletta su cui aveva e avrebbe trascorso gran parte della sua esistenza sportiva e poi clandestina (la prima la ebbe nel 1937 a 15 anni, una “Zanzi” da corsa). Bonazzola – Paolo il nome di battaglia – era un giovanotto alto e magro, molto veloce, capace di sfidare nelle corse con buon successo i suoi avversari del tempo fra Varese e Como, in primis Giuseppe Macchi “Claudio”, il futuro comandante della 121a brigata d’Assalto Garibaldi “Walter Marcobi”, ma anche un ignoto Fausto Coppi, Canavesi, Rimoldi, i giovani emergenti di quegli anni.
Valse la pena quella volta rinunciare alla celeste “Zanzi” perché fu un’occasione storica che avrebbe segnato parte della futura vita delle bande partigiane di montagna e di città, tanto era stato il bottino di esplosivo, detonatori, micce, a conclusione di un’operazione prodigiosa per coraggio e tempestività.
La bicicletta da corsa, quel giorno d’ottobre del ’43, quando i tedeschi avevano già stretto Varese, giudicata strategicamente importante dal RuK (il dipartimento di controllo industriale per il prodotto militare, aerei soprattutto) in una morsa granitica, violata il 12 settembre senza colpo ferire, “con le signore e signorine – appuntò sconsolato nel Liber Chronicus il prevosto di Varese monsignor Alessandro Proserpio – che andarono loro incontro con fiori e sigarette”, l’aveva prestata a un giovane compagno di lotta, Antonio Pedroni che funse da battistrada con altri tre protagonisti della Resistenza italiana, Dionisio Gambaruto (“Nicola”), studente in medicina di Asti, poi comandante in Valtellina del Raggruppamento “Garibaldi”, Mario Di Lella (“Galli”) partigiano in Val d’Ossola e Renato Morandi, (“Carletto”) fra i fondatori della 52a brigata “Luigi Clerici” che catturò Mussolini, varesino, sprinter e campione d’Italia di ciclismo su pista.
Il singolare corteo aveva come traguardo una zona fra Induno Olona e Arcisate, sede di un polveriera militare. Lì, con l’accordo preventivo del custode, il maresciallo dell’ex Regio Esercito Colucci, in contatto con Di Lella, l’esperto di esplosivi, il commando partigiano avrebbe dovuto caricare a bordo tutto quanto era possibile, considerato il poco tempo a disposizione e il rischio di un possibile allarme.
“Pedroni, uno studente di Sant’Ambrogio, cugino di Gisella Floreanini, il futuro ministro dell’Assistenza nel Governo della Libera Repubblica dell’Ossola – ricorda Quinto Bonazzola, 91enne, cittadino milanese dopo un’intera carriera all’Unità, memoria ferrea, precedette il camioncino, che non ricordo da dove venisse, forse dall’impresa edile De Grandi, lungo un percorso battuto dai mezzi nazifascisti. Induno Olona si trovava lungo la direttrice Varese-Porto Ceresio sul lago omonimo, a un passo dal confine. Pedroni faceva da staffetta. Si fosse presentato un pericolo ci avrebbe avvisato in tempo tornando sui suoi passi e noi avremmo assunto le precauzioni del caso. Il programma filò via liscio. Entrammo indisturbati nella polveriera e prendemmo il materiale che ritenemmo più utile alla nostra causa. Dinamite, gelatina esplosiva, soprattutto ma anche micce e detonatori. Un paio di quintali di materiale”.
Il ritorno a Varese fu regolare. Il bottino venne nascosto in un primo tempo in una casina da caccia sopra Barasso alle pendici del Campo dei Fiori e poi distribuito in varie direzioni. Ricorda molto bene Bonazzola, anche perché ebbe occasione di collaborare a qualche trasporto: “Parte dell’esplosivo fu consegnato al Gruppo 5 Giornate del San Martino che il colonnello Carlo Croce usò per distruggere la caserma di Vallalta e i depositi d’acqua, al termine della disastrosa battaglia del novembre del ’43, un’altra parte la portai a Milano del deposito dell’Atm in via Messina presso il Cimitero Monumentale e servì ai Gap di Egisto Rubini e poi di Giovanni Pesce; un’altra parte ancora (una trentina di chili) fu trasferita dentro due valige in treno a Lodi da Carla Della Bordella, la moglie di Morandi. Quello che restò lo utilizzammo a Varese per far saltare le centraline elettriche dell’Avio Macchi e i camion della Werhmacht. Un bel colpo lo facemmo in via Veratti: minammo un automezzo delle SS che fu completamente distrutto”.
Ma la bicicletta dopo il colpo di Induno Olona tornò a essere per “Paolo” il cavallo di battaglia. La base operativa da cui partivano le azioni gappiste era il negozio di Augusto Zanzi “il Gusto” in via Veratti, una sorta di sede partigiana dove, con la scusa della bicicletta, si radunavano gli uomini che, uscendo dalla clandestinità, avevano aderito alla lotta armata, un passaggio non facile ma legittimato dalla causa. “Frequentare l’Augusto Zanzi era diventata un’abitudine quotidiana – continua Bonazzola – quasi una necessità. Con la scusa di aggiustare i freni o di controllare la pressione delle gomme, ci scambiavamo le notizie e organizzavamo le azioni da compiere. Il nucleo dei primi combattenti uscì da lì. Il Morandi della 52a, il Macchi della 121a, il Marcello Novario della 40a “Matteotti” in bassa Valtellina, io stesso del Gruppo di Fuoco del Fronte della Gioventù a Milano al fianco di Curiel, Ingrao, Raffaele De Grada, Aldo Tortorella, Gillo Pontecorvo e tanti altri”.
Il discorso si allarga. Bonazzola torna al tempo di scuola, ai primi lampi che gli fecero intravvedere il nemico in tutta la sua reale dimensione. Varese, fascistissima, aveva fra le prime città offerto la cittadinanza onoraria al suo Duce. Pensarla in modo diverso era un’impresa.
“L’antifascismo – dice Bonazzola – l’avevo conosciuto in famiglia ma soprattutto poco alla volta sui banchi del liceo “Cairoli” dove il clima era elitario. La scuola era frequentata dai rampolli degli industriali e dei professionisti. I compagni antifascisti erano rari, Silvio Carletti, Marcello Novario, Antonio Conticini poi caduto in Russia, Cesarino Bensi. Fu proprio Bensi che sarebbe diventato un leader del Partito Socialista, che era stato esule in Francia con la famiglia, a farmi imparare alcune parole chiave come “giustizia” “libertà” mai sentite prima. Poi aggiunse: adesso prova ad andare in piazza e a pronunciarle e vedrai cosa ti capiterà. Al “Cairoli” tirava aria brutta. Un compagno di classe, tale Mambretti, figlio di industriali, mi aggredì. Reagii. Fui sospeso e rischiai di non poter fare gli esami finali. Ero ormai convinto che il fascismo fosse una bestia da dover abbattere. Prima del 25 luglio con la vernice nera feci alcune scritte sui muri di Varese e composi dei volantini utilizzando i caratteri di un gioco in voga “Il piccolo tipografo”. Erano i primi passi di quello che sarebbe successo dopo”.
Il “dopo” fu una fitta catena di azioni. Il blocco della produzione dei “caccia “Veltro” e “Saetta” della Avio Macchi, per l’interruzione dell’energia elettrica fu il più clamoroso. Ma il 4 dicembre 1943 per “Paolo” fu la fine. Arrestato per avere rubato del carburante al Deposito della Croce Rossa di Varese. Un atto che avrebbe potuto mandarlo al muro o, nell’ipotesi più favorevole, in un campo in Germania. Il processo davanti al Pretore Leosco ebbe però una svolta imprevista. A Bonazzola non venne contestata l’aggravante terroristica ma il furto fu inquadrato come un reato comune. La condanna fu lieve e il 15 dicembre fu scarcerato. Uscì dai Miogni, salutò i genitori e la sorella Tiziana, e partì per Milano dove iniziò la sua seconda vita partigiana. Non fu più “Paolo” ma “Enrico Speroni”, un grigio inquilino di un modestissimo appartamento nei pressi della Stazione Centrale. Quella che non lasciò fu la celeste “Zanzi” con cui si mosse abilmente nella metropoli sino al 25 aprile.
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