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Editoriale

APOSTOLATO

MASSIMO LODI - 28/02/2025

papiA guardarlo immaginificamente da quassù, dal Sacro Monte a firma padre Aguggiari, dall’acciottolato ove s’incurvano gli oranti da oltre quattro secoli, il nuovo Papa ci parve un pellegrino. Un penitente. Un espiante. Uno di quelli che salgono la via sacra chiedendo perdono dei loro peccati, impetrando la divina misericordia, dividendo il gesto umile con i compagni della ventura religiosa. Ci parve quel che fu in una tersa giornata di novembre dell’84 Giovanni Paolo II, l’arrampicatore di Dio trovatosi a suo agio, e nonostante il fisico minato dalle pallottole di Alì Agca, nel calpestare i due chilometri dalla Prima Cappella al Mosè. Un uomo di preghiera semplice, messaggio limpido, itinerario lineare. Un uomo come tanti altri uomini: compagno dell’esistenza, confidente, amico. Soprattutto un sostegno, nella civiltà globalizzata dove spesso molto, quasi tutto, ne appare privo, in una friabilità esistenziale che mina perfino le architetture dell’anima.

Bergoglio come Wojtyla. Due figure di radicalismo dello spirito, se così si può dire. La spontaneità del tratto, il calore umano, l’ascolto della folla credente. La capacità di comprendere il cuore della cristianità pur arrivando da direzioni opposte a questo cuore e da esso lontane. Dall’est del mondo il pontefice polacco, dal sud del mondo il pontefice argentino. Percorsi diversi, incrocio condiviso e rappresentato dal privilegio dato alla testimonianza evangelica: primo, il ritorno alle origini “sine glossa”, senza mediazioni e adattamenti; secondo, tutto il resto.

Mettere riparo alla Chiesa che si sta rovinando: ecco lo scopo unico dei due pastori. Lo stesso indicato, e assolto, dal Francesco Poverello, e che fu lezione messa in pratica qui da noi. Uno dei tragitti d’ascesa al Sacro Monte, dirimpetto a quello storico punteggiato dai ricoveri d’arte firmati dal Bernascone, è un sentiero che va sotto il nome del santo d’Assisi; e lungo le sue strette anse si trova ancora traccia dei ruderi d’un conventino d’epoca antica, quando ai viandanti era impraticabile altra sosta confortevole diversa da questa. Il camminamento angusto e il rifugio consacrato segnalavano un’alternativa di marcia -e un simbolismo illuminante- nella mappa del luogo santo.

E poi ancora, rimanendo sui contrafforti verdi che ci sono cari, e traendone spunto per indicare un’affinità: Giovanni Paolo che s’inchinò con fervore davanti alla Madonna nera sulla cima del monte, Francesco che appena eletto tenne a mostrare la devozione alla madre di Gesù. Come a chiedere, entrambi, un ausilio di protezione nello sforzo d’allargare le porte della Chiesa. Per uscirne, correre tra i fedeli, portarvi i doni della misericordia e della compassione, farsi partecipi -sia pure solitari e divisivi, talvolta/purtroppo- della buona novella.

Per riassumere: un filo invisibile, eppur resistente, di privilegio alla servitù caritatevole nel mondo e per il mondo, unisce la storia conclusa di quel Papa e la cronaca in divenire d’apprensioni di questo Papa. Due vicende che, riavvolgendo il nastro della memoria, sembrano predittivamente marchiate nel loro parallelismo proprio dal Sacro Monte, sulle cui rampe ad affiancare Wojtyla c’era il cardinale Martini, per Bergoglio qualcosa più d’un riferimento ecclesiale. Un orientamento di viaggio. Un apparentamento di missione. Un segnale della croce.

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