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Società

SGUARDI

GIOIA GENTILE - 21/02/2025

sguardoIn questo periodo, non so perché, mi ritornano spesso alla mente alcuni sguardi. Forse perché si tende sempre di più a parlare sui social o al telefono e ci si incontra meno. Forse perché gli sguardi che ricordo erano inaspettati e mi sono stati rivolti da persone che non conoscevo e non rivedrò più: come la rivelazione di un legame che avrebbe potuto esistere in un altro luogo, in un altro tempo, in un’altra vita e non si potrà mai allacciare.

Il primo sguardo a cui penso è quello di un bambino indiano. Eravamo seduti vicini su un muretto e guardavamo le foto che avevo scattato i giorni precedenti, nominando insieme i soggetti fotografati. Lui rideva felice e, quando venne il momento per il mio gruppo di partire, mi accompagnò al pullman. Lo salutai dal finestrino e nei suoi occhi vidi la mia stessa tristezza. A volte tra bambini e anziani si crea un’alchimia strana, difficilmente spiegabile. Non lo incontrerò più, ma lo rivedo come fosse qui, ancora con i suoi sei anni, e provo lo stesso affetto e la stessa malinconia di allora: la sensazione di qualcosa che avrebbe potuto compiersi e di cui si è vissuta solo la promessa.

L’altro sguardo fu in una situazione simile: io sul pullman che saluto dal finestrino e fuori una ragazzina di 11/12 anni. Eravamo a Napoli, durante un tour; lei era nel nostro gruppo con i genitori. Evidentemente genitori attenti, come i suoi insegnanti, perché era molto interessata alle opere dei musei e ogni volta che la guida faceva una domanda – e tutti tacevamo per paura di fare figuracce – lei, candida e sicura, rispondeva, e rispondeva sempre bene. Quando fu il momento di separarci, le dissi: “Resta sempre così, con questa passione per lo studio e per la bellezza”. Salii sul bus e nei nostri sguardi, che si incontrarono attraverso il finestrino bloccato, si poteva leggere la stessa domanda: perché gli incontri devono scivolarci via così?

Il terzo sguardo risale ad appena un mese fa. Ero in ospedale, nel corridoio del reparto di radiologia, quando, spinto da un’infermiera, arrivò un lettino su cui era disteso un ragazzo. Poteva avere 18/20 anni. Cuffia in testa, colorito pallido: era evidente che avesse una malattia grave, cancro o leucemia. Mi guardò e mi sorrise, con gli occhi, con tutta l’espressione del viso. E io mi sentii in colpa: per essere in piedi mentre lui era sdraiato; per aver vissuto fino a quest’età mentre lui chissà se ce l’ha, un futuro. Gli sorrisi anch’io, ma poi, pensando che il mio sguardo fosse difficilmente decifrabile dietro le lenti, non trovai di meglio che sussurrargli “in bocca al lupo”. Una frase stupida. Ma il suo sorriso mi confermò che aveva capito.

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