Per il 2025 Subiaco è Capitale del Libro: in questo incantevole paese dei Monti Simbruini ebbe inizio la storia del monachesimo occidentale, con la scrupolosa trascrizione dei manoscritti antichi da parte dei monaci. E nel 1465 vi fu la prima tipografia a caratteri mobili.
Siamo figli della storia e della memoria canta il bravo Simone Cristicchi con Setak. E per la storia i libri hanno un ruolo fondamentale. A volte si ha ancora paura della parola scritta e di certi romanzi. Basti pensare che a ottant’anni dalla pubblicazione la Fattoria degli animali di George Orwell è oggetto di censura in Cina e in Kenya. Un esempio tra tanti. Fortunatamente si ha sempre più voglia di raccontare. Certo le obiezioni in merito non mancano: non tutto quello che si scrive è letteratura. Ammesso che sia facile condividere la definizione. O anche si scrive più di quanto si legge. E mille altre obiezioni giuste e giustificabili.
Ma anche se la storia non si costruisce con i se, qualche volta essi sono necessari. Se venisse meno la voglia di raccontare andrebbe meglio? Ogni risposta è possibile. Ma vale la pena sognare di ipotizzare un PIL, in cui la L corrisponde a Libri. Secondo una statistica di un paio d’anni fa in Italia gli scrittori sono settantamila. Dal numero sono esclusi gli aspiranti in cerca di pubblicazione o desiderosi di auto-pubblicazione. Anche nella nostra provincia si è tentato di mappare il numero degli innamorati della penna. Sul sito cvslibrionline sono indicati oltre cento scrittori e scrittrici. A chi legge spetta il vero giudizio di merito. Non basta scrivere per definirsi o essere definiti scrittori. Lapalissiana ma non così scontata affermazione. In ogni caso un pensiero di Jonathan Safran Foer, al quale non manca certamente il successo, serve più di mille valutazioni critiche: «Scrivere romanzi significa prendersi cura degli altri. Se io ci tengo veramente a te, se voglio avere una relazione con te, ti racconto storie» afferma con semplicità lo scrittore statunitense.
Gli esempi locali di questa incontrovertibile considerazione lo testimoniamo. La narrativa varesina – e non solo essa – non è, da esaminare soltanto quantitativamente. Ha fatto bene Alessandro Ceccoli a lanciare da qualche mese il gruppo “Scrittori in Varese”, un adeguato modo di prendersi cura culturalmente degli altri. E lo sa bene Ceccoli che fin dall’infanzia ha respirato “libri” nella piccola editoria paterna e nella biblioteca frequentata anche da Benedetto Croce. Interessante, coinvolgente e stimolante il suo ultimo romanzo. Se vi è – più o meno valida – la regola di non spoilerare una storia, quanto scrive in La fabbrica dei velluti è nel suo snodarsi una prova del valore relazionale che una scrittura, attenta e morbida come un velluto, può offrire.
Nel romanzo, che è un sapiente equilibro tra la trama, cioè la storia, e l’ordito, un ricamo di riflessioni, si può leggere a pagina 64: «Ero sconcertato dall’importanza che le narrazioni possono avere nella vita degli uomini, impressionato da quanti argomenti posti in giusta successione potessero condizionare la mente umana». Forse abbiamo davvero bisogno di non rinunciare a essere sconcertati. E seguire l’esortazione che l’autore immagina che Francis Scott Fitzgerald dia al protagonista: «Se crede di aver qualcosa da raccontare lo faccia». Importante che ci sia sempre bisogno di ascoltare e di leggere e di raccontare storie. Che poi non tutti possano diventare Scott Fitzgerald è un altro discorso. Ci basterebbe pensare che ogni città possa essere una piccola capitale del libro.
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