Se avete presente la serie televisiva Doc – Nelle tue mani, probabilmente avrete pensato, come me, che un medico come quello interpretato da Luca Argentero esiste solo nei film: primario di un reparto di Medicina di un immaginario ospedale, prima di tutto vuole conoscere i suoi pazienti, i loro problemi, le loro speranze, le loro difficoltà; poi li aiuta, non solo con le sue competenze mediche, ma con la sua presenza, il suo sorriso, il dialogo. Appunto, solo nei film.
Invece almeno uno esiste e l’ho incontrato. È il prof. Imperatori, primario della Chirurgia toracica dell’Ospedale di Circolo di Varese. Era una domenica mattina, ero ricoverata da un paio d’ore, quando è entrato nella stanza, si è presentato e mi ha detto che fa sempre un giro, la domenica, per conoscere i suoi pazienti. Abbiamo cominciato a chiacchierare. Non solo dell’intervento, su cui ha risposto a tutte le mie domande, anche le più insignificanti, ma del passato, del futuro, della vita e della morte. Era la prima volta che lo vedevo e mi sembrava di conoscerlo da sempre.
Non c’è stato giorno che non sia passato nella mia camera, anche solo per un saluto, prima di andare a casa. Non mi ha mai guardato come una malattia, neppure come una malata, mi ha sempre trattato come una persona che, per caso, ha contratto una malattia che, tuttavia, non la definisce.
Tutti gli operatori del reparto – medici, infermieri, OSS, tirocinanti – hanno avuto un atteggiamento costante di gentilezza, di rispetto, di attenzione. Ogni tanto passava un medico, che non ricordavo di aver visto prima, e mi chiedeva “Come va?”. Qualcuno mi ha detto che ormai la “strategia aziendale” suggerisce – o impone – tali comportamenti, ma io penso che l’umanità, se ti manca, non la puoi fingere.
Il quarto giorno dopo l’intervento ho compiuto gli anni. Ad un certo punto un chirurgo, che pure non aveva seguito il mio caso, e due infermiere hanno fatto capolino nella mia stanza e in coro mi hanno augurato buon compleanno. Era ormai sera quando è passato il prof., dopo una giornata intera in sala operatoria: “Solo un momento, per farle gli auguri”.
È stato un compleanno che non potrò dimenticare, non tanto perché l’ho vissuto in ospedale, ma perché quei semplici gesti sono stati il regalo più bello che potessi ricevere: mi hanno dato la serenità necessaria per affrontare il dolore e la paura.
In passato mi era capitato, a volte, di trovare medici un po’ bruschi o freddi e mi ero sempre detta: “L’importante è che sia bravo, mica me lo devo sposare!” Però anche la capacità di ascolto e l’empatia sono una terapia.
Forse c’è ancora speranza per la sanità italiana, se resistono persone così, capaci di coniugare competenza e umanità.
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