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Società

PASTASCIUTTA

SERGIO REDAELLI - 06/02/2025

vespaQuesta volta Bruno Vespa è finito nell’occhio del ciclone per avere espresso un’opinione e fa un certo effetto pensare che un giornalista non possa dire la sua su un fatto di rilievo nazionale come il caso Almasri. Il Bruno nazional-popolare si è preso del “portavoce di Palazzo Chigi” per avere detto in chiusura del programma Cinque Minuti su Raiuno in difesa del governo: “Sappiamo tutti che in ogni Stato si fanno cose sporchissime per la sicurezza nazionale, anche trattando coi torturatori”. Sinceramente non si fa fatica a credergli. La sua non sembra essere una gran rivelazione o addirittura una violazione del segreto di Stato, come sostiene Matteo Renzi. Gli accordi con la Libia in funzione anti-migranti hanno radici antiche ed è ipocrita pensare che in passato fossero meno cinici, brutali e censurabili di quelli attuali.

È vero che il governo persevera nell’errore, ma ricordare le responsabilità dei precedenti esecutivi non è un reato. “Se Vespa sa di cose sporche ne fornisca la prova” tuona il leader di Italia Viva e i parlamentari M5s in commissione di Vigilanza Rai incalzano: “Vespa fa propaganda di regime. Se ci tiene così tanto a sostenere il governo, che si candidi con Fratelli d’Italia”. Un sarcastico invito, quest’ultimo, che fa il paio con il recente attacco di Giorgia Meloni al procuratore Lo Voi per l’avviso ricevuto (con alcuni ministri) in relazione al discusso rimpatrio del presunto torturatore libico: “Se i giudici vogliono governare si candidino alle prossime elezioni”. Colpisce che il/la premier ricorra a questo genere di battute banalizzando il tema, assai delicato, della indipendenza dei poteri dello Stato.

Dal polverone scatenato contro Vespa emerge invece il fastidio delle opposizioni per il ruolo che il giornalista occupa stabilmente nella televisione pubblica dal secolo scorso. Ottant’anni, aquilano, assunto dalla tv di Stato nel 1969, conduttore, inviato speciale e direttore del Tg1 dal 1989 al 1992, autore di numerosi libri che la tv pubblicizza con generosità, Vespa conduce da ventinove anni su Rai1 il programma Porta a Porta e da alcuni mesi la finestra Cinque Minuti incuneata tra il Tg1 e Affari Tuoi: superando di slancio, grazie al contratto di artista, il ragguardevole tetto di 240 mila euro l’anno. È un aziendalista inamovibile, un’icona forse ultimamente un po’ sbiadita, se è vero che gli ascolti sono in calo.

Di certo è una presenza ingombrante, almeno per la sinistra, fin dai tempi del contratto con gli italiani siglato da Silvio Berlusconi. Anche se lui afferma che la sua carriera sarebbe stata più semplice se fosse stato di sinistra e, con una buona dose di egocentrismo, che il suo editore di riferimento è soltanto il Padreterno. Marco Travaglio lo definisce “un mezzobusto in sughero che galleggia da molti anni in Rai sotto tutti i regimi”. Giovanni Valentini, editorialista del Fatto Quotidiano, lo considera l’incarnazione vivente della partitocrazia televisiva. Altri lo vedono come un Talleyrand del piccolo schermo con il cuore a destra o, come si diceva, la grancassa del governo. Battagliero, tenace e sempre pronto a protestare per ogni scoop che gli sfugge.

Sollecito a criticare Cecilia Sala appena liberata dalle carceri iraniane che – ospite dell’avversario Fabio Fazio a Che tempo che fa – non ha citato i meriti della Meloni per la sua scarcerazione. Polemico con l’Agcom che, in vista delle Europee, annulla il confronto pre-elettorale Meloni-Schlein a Porta a Porta togliendogli un probabile record di ascolti. Infuriato con le celebrazioni dei cent’anni della radio e dei settanta della televisione perché nessuno ricorda il trentennale della sua creatura. Insomma, un salottiero principe del potere politico-televisivo, assai diverso da Indro Montanelli che Vespa considera un proprio maestro. Secondo il quale invece un giornalista, con i politici, non deve mangiare neppure una pastasciutta.

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