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Economia

SEGNALI DI SPERANZA

SANDRO FRIGERIO - 06/02/2025

Il lungo tavolo della trattativa per la crisi Beko a Roma. Presenti il presidente della Provincia di Varese Magrini, il sindaco di Varese Galimberti e quello di Biandronno Porotti

Il lungo tavolo della trattativa per la crisi Beko a Roma. Presenti il presidente della Provincia di Varese Magrini, il sindaco di Varese Galimberti e quello di Biandronno Porotti

Non si può dire che le nubi siano sparite, però il 2025 sembra riaprirsi con qualche spiraglio di luce in più per l’industria varesina. Nelle scorse settimane avevamo analizzato situazioni e cause delle crisi Beko – ex Whirlpool (Cassinetta) e MV Agusta (Varese Schiranna). La prima è coinvolta nella “feroce” ristrutturazione avviata dalla proprietà turca Arcelik che ha portato alla decisione di chiudere una piccola fabbrica in Gran Bretagna e a tagliare duemila addetti in due impianti in Polonia e 1935 in Italia, tra impianti da chiudere, a Siena e Comunanza, e da ridimensionare, a Cassinetta. La seconda invece è finita nel crack della capogruppo, l’austriaca KTM, con debiti miliardari accumulati e conseguente “amministrazione autonoma controllata”.

Cominciamo da Beko. La buona notizia è che almeno la proprietà turca ha accettato di discutere un piano alternativo. Non si parla di ritiro o di ridimensionamento dei tagli, ma almeno la porta è aperta e si vedrà che cosa verrà messo sul tavolo. Quel che è certo è che in un mercato che soffre di sovracapacità, le perdite che l’azienda deve affrontare sono ritemute eccessive. Se Whirlpool ha ceduto, lasciando il “lavoro sporco” a Beko, che nel settore non è esattamente un marchio “first class”, qualche motivo ci sarà pure. Come ha ricordato a Varese il ministro Giorgetti, che abita a un tiro di schioppo da Cassinetta, non sarà la Golden Power adottata dal governo la soluzione del problema, ma servirà almeno a prendere tempo per vedere che faccia avrà il coniglio nel cappello. Per il momento, le procedure formali di licenziamento sono scongiurate. Interventi pubblici a sostegno diretto sarebbero impensabili, anche perché la Polonia, che è pur sempre nella UE, non resterebbe in silenzio e gli altri concorrenti europei non sopporterebbero aiuti di stato “selettivi”, cioè per un concorrente. Già, perché in questo momento è il settore intero a soffrire. I sindacati parlano di 20 mila posti di lavoro nell’industria italiana degli elettrodomestici, indotto compreso.

 L’altro gruppo febbricitante è Electrolux, che negli ultimi anni ha visto ripetuti tagli nelle sue sedi: non solo ai grandi poli di Porcia o Susegana ma anche nella vicina Solaro, alle porte di Saronno, dove sono prodotte lavatrici e dove fino a pochi mesi fa si parlava di alcune centinaia di esuberi, cassa integrazione e contratti di solidarietà. Il 30 gennaio il gruppo svedese ha pubblicato conti annuali in ripresa, dopo un 2023 pesante, e le minacce di nuove scuri sugli organici sembrano allontanate. Qualche spiraglio si apre anche alla Candy di Brugherio. Entrata recentemente nel grande gruppo cinese Haier, l’azienda sembrava dover sparire dalla mappa. Gli accordi di queste ultime settimane cercano un compromesso: chiuderà la linea d produzione di lavatrici (un mercato attualmente sovraffollato), un centinaio di addetti, ovvero la metà dell’organico, se ne andrà, una mega-ristrutturazione riconvertirà il sito in polo logistico e per i ricambi su scala europea.

Resta in generale il problema di un settore in trasformazione, dove il mercato europeo conta sempre meno. Un dato per tutti: Nel 2020 l’Europa registrava per Electrolux quattro volte le vendite dell’America Latina, lo scorso anno solo due volte. In un mercato dalla demografia debole la domanda è di sostituzione, ma nuovi elettrodomestici chiedono innovazione e ricerca, cosa che in Europa ha fatto di più Bosch, e in oriente cinesi e coreani. Ci si interroga ora anche sugli effetti della guerra commerciale conseguente ai dazi decisi da Trump. La sola Whirlpool, per esempio, ha quattro fabbriche in Messico e cinque in America latina.

Novità anche sul fronte delle moto. Come prevedevamo nell’articolo precedente di dicembre, è tornato in sella (è il caso di dirlo) Timur Sardarov, l’ex proprietario che aveva ancora il 49,9% contro il 50,1% degli austriaci che hanno avuto il controllo dell’azienda per meno di un anno. Il 17 dicembre il tribunale regionale di Riedi im Innkreis aveva annunciato che la quota di KTM nella società varesina sarebbe stata messa in vendita.

Il prezzo dell’operazione non è stato comunicato, del resto MV Agusta, è un moscerino, che però vola, rispetto al gigante impantanato KTM. Il fatturato ultimo è stato di 134 milioni contro 2,6 miliardi di euro del gruppo e le moto prodotte nel 2024, secondo numeri circolanti a dicembre sono state 6 mila (ma quelle effettivamente vendute solo 4 mila, pur in forte aumento) contro 300 mila di tutta KTM. Soprattutto, l’azienda varesina lo scorso anno ha fatto utili mentre la casa madre perdeva. Forse si salverà anche KTM, attorno alla quale ruota una galassia incredibile di una sessantina di aziende e dove far ordine sarà la condizione fondamentale. Sul fronte sportivo la casa dell’Alta Austria porta a casa intanto un prestigioso successo, con la fresca vittoria a metà gennaio dell’iconica Dakar di Daniel Sanders su KTM: la materia prima insomma c’é.

Per ora MV Agusta, e con essa i suoi duecento dipendenti, torna a respirare, salvando i rapporti con i fornitori e i rivenditori. La domanda è: fino a quando un marchio più che di nicchia – peraltro anche con ambizioni nella mobilità elettrica urbana – potrà restare indipendente in un mondo di giganti, dove anche eccellenze italiane come Moto Guzzi, Aprilia, per non parlare di Ducati, hanno dovuto accasarsi?

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