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Sport

PRAJA CHE L’IGNIS VOLEVA

FLAVIO VANETTI - 31/01/2025

prajaLo scorso 25 gennaio il basket europeo (anzi, mondiale) ha perso un grandissimo campione: Drazen Dalipagic, per tutti “Praja”, mancato all’età di 73 anni dopo una lunga malattia. Parlare di lui significa innanzitutto tornare ai tempi della Jugoslavia, sul piano cestistico declinata con squadre nazionali, meglio squadroni nazionali, che di norma solo l’Urss d’antan poteva contrastare. E forse sarebbe stato interessante vedere quel gruppo di fuoriclasse opposto a formazioni Nba: ma il cosiddetto Basket Open, quello che dal 1992 ha permesso che cadesse il muro tra professionismo e dilettantismo e che ai Giochi olimpici e ai Mondiali vedessimo in azione sotto l’egida della Fiba e senza distinzione tutti i campioni del globo, non era stato ancora inventato. Sarebbe servita infatti la lungimiranza di David Stern, compianto commissioner della Nba, e di Boris Stankovic, buonanima a sua volta, segretario plenipotenziario (e illuminato) della Federbasket internazionale, per avviare un nuovo percorso, risultato vincente sotto vari punti di vista.

Ad ogni modo Drazen Dalipagic e la sua Jugoslavia infliggevano legnate spaventose a tutti, con una certa predilezione per noi italiani. Quante volte abbiamo imprecato contro le sue prodezze e quelle dei compagni di merende, i vari Slavnic (playmaker che soffrivamo in modo terribile), Kicanovic, Cosic, Delibasic, Jerkov e via discorrendo? Tante, troppe. Ma loro, i plavi, erano davvero una razza cestistica superiore, anche se noi non opponevamo certo dei brocchi.

Però scrivo queste note anche per un motivo, che la perdita di Praja mi ha fatto tornare alla memoria, anche se con contorni imprecisi. Ricordo comunque che Giancarlo Gualco, general manager di una Varese che – by the way – all’epoca i 40 punti di scarto li rifilava e non li incassava, cercò di ingaggiarlo. Però non rammento se avviò la trattativa quando Morse alla fine della stagione 1974-1975 decise di tornare negli Usa (salvo per nostra fortuna cambiare subito idea) o se contasse di affiancare l’asso slavo all’inizio dell’era del secondo straniero. Sta di fatto che non se ne fece nulla: Dalipagic non aveva ancora prestato il servizio militare – lo rinviava per ragion di basket – e fino a quando non l’avesse assolto la Jugoslavia non gli avrebbe permesso di espatriare.

Così delle sue prodezze hanno beneficiato altri: in Italia, Venezia (per 4 stagioni), Udine (due) e Verona (una sola annata); in Spagna, il Real Madrid, con cui però non vince la Coppa dei Campioni, trofeo che gli manca.

Nella nostra serie A ha realizzato 7993 punti, 70 in una sola partita con la maglia di Venezia contro la Virtus Bologna. Nell’annata 1981-82, con il Partizan Belgrado, tenne la mostruosa media di 42,9 punti a incontro. Eletto tre volte miglior giocatore europeo dell’anno, con la Jugoslavia collezionò 243 presenze, vincendo la medaglia d’oro olimpica a Mosca 1980 (nella finale contro l’Italia) e quella iridata nel 1978 a Manila. Sempre con i playi ha poi centrato tre titoli continentali, entrando nella Fiba Basketball of Fame nel 2004. Tirava con una freddezza spaventosa, aveva l’istinto del killer ed era bravissimo anche nel gioco senza palla, decisivo per smarcarsi.

Dietro a quegli inconfondibili baffoni, decisamente “balcanici”, c’era una persona gentile e garbata (anche con i giornalisti, che di solito non sono visti benissimo). Ecco, per concludere, il ricordo di Super-Dino Meneghin: “Se fosse nato negli Usa, Dalipagic avrebbe dominato anche di là, nella Nba. Era uno splendido tiratore. Io ci ho sempre giocato contro, da rivale, in un altro ruolo naturalmente, ma l’ho sempre rispettato perché era un avversario leale: non rammento per esempio un suo fallo tecnico. Me lo ricordo bene a Venezia e al Real Madrid. E ovviamente con la maglia della sua Nazionale, quando ci faceva sempre il mazzo…”.

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