C’è Sofia, che ha studiato neuropsicologia e ora mette in pratica le nozioni che ha imparato a Cleveland. E subito dopo di lei Niccolò, diventato responsabile HR a Gijon, Asturie, non lontano dalle onde del Mar Cantabrico.
E poi Erica, da Malnate al Joint Research Center di Geel, Belgio, dove insegna fisica e ha trovato marito. E quindi Romeo, 20 anni tondi tondi, che la sua età migliore la sta vivendo in un college della California, studiando e sognando il grande basket.
Ma che dire di Giorgia, che da Cassano Magnago è andata a finire in una miniera in Australia? E di Chiara, “volata via” da Azzate e atterrata a Ginevra, nella nota multinazionale Caterpillar? Ci sarebbero anche Diego, che il fisioterapista ha deciso di farlo a Leuven (Belgio) e non più a Busto Arsizio, e Giulia, che è un po’ un “simbolo” nel ragionamento che stiamo cercando di impostare con questi esempi: lei gli immigrati italiani è andata ad aiutarli. Per lavoro. A Montevideo. Uruguay.
Sofia, Niccolò, Erica, Romeo, Giorgia, Chiara, Diego e Giulia. Tutti tra i 20 e i 40 anni. Segni particolari? Varesini e varesotti “fuggiti” all’estero per impostare altrove – e per altrove, come avete potuto notare, intendiamo davvero tutto il mondo – la propria vita.
Bisogna dire grazie a VareseNews se scriviamo di loro: la testata online si è inventata una rubrica quasi giornaliera in cui racconta le storie di questi ragazzi e ragazze il cui numero generale, almeno stando ai registri dell’Aire, l’anagrafe degli italiani all’estero, è di 70 mila teste, cuori e gambe.
Settantamila varesini risiedono lontano dalla loro “terra madre”. Settantamila: è come prendere una Varese (quasi) e cancellarla completamente dalle mappe.
Entriamoci in queste vite lontane, non con l’intento di “spoilerare” gli articoli che le raccontano, quanto con quello di trovare un minimo comun denominatore tra di esse. Presto detto: sono tutte vite felici.
Sono vite cambiate in meglio, realizzate professionalmente ed economicamente. Sono percorsi lunghi e all’apparenza rischiosi ma arrivati sempre a un approdo. Sono confessioni di mancanze, che guardano alle famiglie lasciate qui, ad abitudini dei focolari abbandonate o ad amici che non si riescono più a frequentare, ma mai di rimpianto: nessuno degli intervistati tornerebbe indietro.
E sospettiamo che lo stesso valga per la maggior parte dei 70 mila varesini e varesotti abroad.
Ci è rimasto in bocca un retrogusto amaro a fine lettura. Che non è quello dell’invidia per stipendi più alti, esistenze più esotiche, prospettive più ampie: no, niente di personale. E comunque indietro non si torna.
È il sapore di una constatazione generale che non può non apparire preoccupante. I 70 mila concittadini che hanno scelto di andarsene non saranno partiti con la valigia di cartone come i “colleghi” di 100 anni fa, ma lo hanno fatto spinti dal medesimo desiderio: cercare qualcosa di meglio, constatare che gli orizzonti, altrove, sono assai più ampi di quelli nostrani. E quell’altrove, come già scritto, è ovunque.
Tranne che qui.
Cosa sarà di Varese, e del Varesotto, se la tendenza non verrà invertita (e non si vede come possa accadere…)? Il problema, va da sé, non è locale, e nemmeno lo sono le soluzioni, i possibili interventi, né le speranze di un cambiamento, ma dalle storie di VareseNews l’allarme risuona sotto al Sacro Monte, tra i laghi e la Brughiera, ai confini dell’Alto milanese così come a quelli con la Svizzera, ricordandoci che non siamo immuni dalle tendenze che stanno cambiando il mondo.
È una sveglia potente, che sa anche di consapevolezza: oggi la placida provincia che una volta era un microcosmo destinato a esistere e resistere, ha le stesse possibilità di “desertificazione” sociale ed economica di un piccolo paese di montagna.
Il processo è il medesimo. Solo più lento, ma non meno doloroso.
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