Trentadue anni fa, il 6 gennaio 1993, moriva a Parigi Rudolf Nureyev, il grande ballerino classico e coreografo che ho avuto modo di conoscere.
Di seguito, il testo che gli ho dedicato a suo tempo.
Non sono certo la persona più adatta a celebrare la indubbia e indubitabile grandezza di Rudolf Nureyev nell’arte della danza nella quale, peraltro, anche da profano, quale ero e sono, lo vedevo rifulgere, unico e solo, al di là e al di fuori di ogni canone e di ogni costrizione, per ‘creare’ continuamente nuove emozioni. È proprio, credo, questa sua capacità di creatore che lo spingeva a essere ogni volta uguale e diverso, comunque e sempre maestro e profeta inarrivabile.
Non lasciatevi ingannare da chi vi dice di essere modesto, umile!
Il grande uomo è perfettamente cosciente della sua forza, della sua unicità e, così, è splendido rivedere e riascoltare una sua vecchia intervista televisiva degli anni Settanta nella quale, con decisione, ripeteva: “La danza in questo secolo è sopravvissuta e ha avuto successo per esclusivo mio merito”, affermazione nella quale è, a mio parere, rintracciabile, comunque, la coscienza, anche del sostanziale e sottile anacronismo di quest’arte.
Rudolf Nureyev ha avuto grandi doni dal cielo e, non ultimo, quello di sapere che, contrariamente ai suoi più antichi maestri e predecessori, la sua classe e la sua valentia resteranno per sempre patrimonio visibile di tutti non esclusivamente in ragione delle splendide coreografie lasciate ma altresì attraverso le infinite, felici registrazioni televisive, cinematografiche e fotografiche che delle sue rappresentazioni esistono.
Ciò di cui, invece, posso tranquillamente parlare, perché mi riguarda personalmente, è delle sensazioni che la semplice presenza di Rudolf sapeva irresistibilmente trasmettere.
Quando, nel settembre del 1991, Nureyev fu a Varese per il suo primo concerto nella nuova veste di direttore d’orchestra (avvenimento di portata mondiale che la città non seppe, come assai spesso le accade, comprendere e che lasciò passare senza alcuna partecipazione, mentre giornali, riviste e televisioni di ogni dove ne parlavano, fosse anche solamente per interrogarsi al riguardo, con giusto rilievo), ebbi finalmente modo di conoscerlo personalmente e fu ospite della mia casa in una splendida, lunga, eppur breve, serata.
Da qualche anno mia figlia maggiore, Alessandra, che già lo adorava da lontano, aveva avuto l’incredibile opportunità di frequentarlo, di seguirlo nelle sue rappresentazioni a Vienna, come a Parigi, a Milano come a Roma, diventandone amica e venendo considerata da lui “come una figlia”.
Ed è proprio per iniziativa di Alessandra che Rudolf aveva deciso di presentarsi nella nostra città in quella sua nuova incarnazione.
Per inciso, l’idea di dedicarsi alla direzione di un’orchestra gli era stata suggerita da Leonard Bernstein, suo coinquilino a New York, il quale gli aveva fatto notare come appunto i direttori d’orchestra fossero da annoverarsi tra le persone più longeve.
Quel 14 settembre il mio turbamento fu grande: Nureyev, con la sua sola presenza, anzi, direi, con il suo solo apparire, sapeva trasmettere fortissime ondate emozionali. Il suo carisma era evidente, solare.
Il portamento naturale, privo di ogni finzione.
Gli occhi, profondi, percorsi a tratti da un fuoco selvaggio.
La voce gentile e imperiosa.
La sua cultura incredibilmente vasta.
Tutto in lui, però, era come velato, immerso in una invadente stanchezza, e si poteva indovinare, purtroppo, che ‘qualcosa’ lo stava lentamente soffocando.
Gradì molto l’ambiente familiare, la cena, la compagnia e parlò, indifferentemente, in italiano, francese, bulgaro, inglese e, naturalmente, russo con gli altri ospiti.
La serata passò tanto velocemente che, quasi in un attimo, fu l’ora dell’addio determinato dall’intervento del suo inflessibile maggiordomo inglese, Blue, che, d’improvviso, gli disse, irremovibile, che era tempo di andare.
Ricordo, come fosse adesso, Rudolf indossare la mantella che la sua inconfessata malattia rendeva necessaria anche in una dolce sera di settembre e assicurare a mia moglie che ci saremmo rivisti “perché” disse sorridendo, “Sissi possa insegnare al mio maggiordomo le ricette delle ottime cose che ho mangiato”.
Mi ripromettevo altri incontri e la possibilità di una più profonda conoscenza, anzi, di una vera amicizia.
Purtroppo, salvo una fuggevole stretta di mano nei camerini del teatro Impero, al termine del concerto del 16 successivo, nessun altro momento ci ha più visti insieme e, fino alla sua dipartita, il 6 gennaio 1993, solo qualche telefonata e la voce di Alessandra quando ne era al seguito (prima del definitivo declino che volle giustamente vivere appartato ove si escluda un’unica, terribile apparizione all’Opera di Parigi laddove di lui restavano esclusivamente i magici occhi a sciabolare tra il pubblico dal palcoscenico) mi hanno informato del reale evolversi della malattia e delle infinite sofferenze.
Per quanto annunciata e attesa, la morte di Rudolf mi ha colto impreparato come accade allorché ci lascia qualcuno che sogniamo sia eterno e sempre a noi vicino.
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