Quello appena iniziato, il 2025, sarà l’anno di «Agrigento Capitale della Cultura italiana». Un avvenimento importante, come dimostrano quelli che lo hanno preceduto, a partire da Matera nel 2019. Allora, questa cittadina della Basilicata era stata nominata capitale della cultura europea, la prima del sud ad avere questo privilegio. Dunque, con molte più risorse rispetto a quelle che può assegnare un ministero come il MIC. In ogni caso, però, qualunque sia la dimensione finanziaria, manifestazioni del genere sono un volano importante per lo sviluppo del tessuto urbano e sociale. Le esperienze passate dimostrano che è una maniera efficace per dare visibilità anche ai Comuni più piccoli, perché possano essere turisticamente attrattivi e facilitati nel trovare risorse per opere infrastrutturali, che rimangono nel tempo e, dunque, costituiscono un arricchimento per l’intera collettività.
L’idea di avere ogni anno una città capitale della cultura è d’una decina d’anni fa, nata dal proposito di promuovere progetti e attività di valorizzazione del patrimonio culturale italiano, sia materiale che immateriale (d.l. 31.5.14, n. 83). Agrigento è stata scelta perché il suo progetto prevedeva di mettere in luce il rapporto della città con Lampedusa e con i Comuni del territorio. In tutto quarantaquattro progetti, di cui diciassette a carattere internazionale, per indagare le relazioni tra gli esseri umani in una prospettiva di pace con la natura “Agrigento assume come centro del proprio dossier di candidatura – si dice nelle motivazioni della Giuria – la relazione fra l’individuo, il prossimo e la natura, coinvolgendo l’isola di Lampedusa e i Comuni della provincia e ponendo come fulcro il tema dell’accoglienza e della mobilità”.
Adesso, a otto anni (2017) dalla presentazione della prima candidatura, si viene a sapere che siamo ancora in alto mare. Ci sono ritardi, polemiche, incertezze a cominciare da un cartellone stradale pieno di refusi, come la scritta “Valli di Templi”, invece di Valle dei Templi, “contrata” invece di contrada (Stella, Corsera 3.1.25). È stato rimosso in tutta fretta. Ma a Pietrangelo Buttafuoco, siciliano, catanese, ascoltato esponente della destra italiana e presidente della Biennale di Venezia non basta. Invoca il commissariamento “dal centro” perché, a pochi giorni dall’arrivo del Presidente della Repubblica, manca ancora un programma concreto. E paventa la possibilità che i finanziamenti possano essere dispersi in mille rivoli, per accontentare un po’ tutti e, quindi «parliamoci chiaro, [è] la formula aritmetica che porta “piccioli”».
Volendo, si può provare a minimizzare, sostenendo che questo di Agrigento è un argomento di poco conto perché, dopotutto, riguarda la cultura e dunque, secondo un sentire ancora diffuso, rasenta l’irrilevanza. In realtà, si tratta di un buono spunto per pensare e ripensare a questa storia dell’autonomia regionale differenziata che incombe sulle nostre teste come una spada di Damocle. L’abbiamo appena scampata perché, fortunatamente, una recente sentenza della Corte Costituzionale ha ridotto a niente un progetto che non era un progetto (sentenza n.192/24).
Ma il pericolo rimane, nonostante Giorgia Meloni che, nel 2014, aveva proposto di cambiare la Costituzione per abolire le Regioni. Per il momento, il pericolo di fare uno spezzatino del Paese sembra passato, ma abbiamo rischiato seriamente di “regionalizzare la scuola pubblica italiana, di decretare la fine del Servizio sanitario nazionale (con la nascita di sistemi mutualistici regionali totalmente indipendenti), di trasferire la proprietà delle grandi infrastrutture e di assicurare alle Regioni ogni potere per la loro gestione e il loro sviluppo, di rendere indipendenti le politiche energetiche regionali, di frammentare la legislazione sull’ambiente. E di molto, molto altro ancora” (Viesti 2024). Dunque, è bene continuare a parlare di Agrigento e della sua aspirazione a capitale della cultura italiana. Sapere quel che non ha funzionato può essere d’aiuto a concepire riforme che non siano fatte solo per ottenere tutto il possibile, indipendentemente da tutto. Non se ne può più.
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