Don Barnaba concluse a fatica l’arrampicata di gradini che introduceva alla sua cameretta. La giornata era stata, come al solito, una turbinosa corsa a ostacoli: le grane dell’amministrazione del collegio, di cui era rettore; i litigi con docenti insoddisfatti della condizione economica e con genitori in disaccordo sulla scarsità di rendimento dei figli; le lezioni di letteratura italiana, materia di cui era appassionato cultore e che non aveva voluto smettere d’insegnare, nonostante il maggiore incarico ricevuto.
Alto e corpulento, i capelli ormai bianchi, il naso adunco, la voce capace di stordenti acuti, don Barnaba era riverito e temuto dagli allievi. Ne aveva cresciuta più d’una generazione, a ciascuna mostrandosi di burbere pretese, e tuttavia donandole ricchezza di spessore umano oltre che nozionistico. Non c’era giorno che dall’istituto sulla collina di fronte al Lago Maggiore non passasse qualche vecchio frequentatore dei corsi per recare un amichevole saluto all’indimenticato maestro. E lui, pur guardandosi dal darlo a vedere per sdegnoso pudore, se ne gratificava assai.
Chiusa la traballante porta pitturata d’una vernice grumosa color panna, il rettore si levò le pesanti scarpe gommate e la giacca del clergyman, accese la luce dell’abat jour sul comodino e si distese nel letto. Buttò l’occhio prima al soffitto grigio scrostato agli angoli, poi alla finestra che gli lasciava intravedere uno scorcio del lago, infine all’armadio di ciliegio ch’era il suo dirimpettaio da ormai una vita, grande, scricchiolante e accidioso come lui anche se -a osservarlo bene- di robusta confortevolezza. Compiuto questo giro d’orizzonte, mise in pratica una sperimentata tecnica per rilassarsi: sciolse le redini ai ricordi, liberandoli dalla cella di costrizione dove rimanevano reclusi per l’intera giornata. E i ricordi ne profittarono subito, partendo da un episodio di poche ore prima per indietreggiare alla volta d’un lontano porto.
Nel pomeriggio la sorella d’un professore di matematica era venuta in visita al congiunto. Condividevano una storia sofferta: figli dello stesso grembo, non lo erano della medesima paternità. L’uno ne ignorava perfino nome e cognome, non rivelatigli dalla madre perché si era trattato d’una peccaminosa conoscenza di gioventù. L’altra era orfana da tempo del padre. Tutt’e due dovevano ora lamentare anche l’improvviso lutto materno.
Incrociata la dolente signora all’uscita del parlatorio, don Barnaba si profuse in espressioni di partecipato cordoglio. Poi camminò svelto verso la classe che l’attendeva. Il passo rapido, la precipitosa entrata nell’aula, la visione della fila di banchi e il chiasso avvolgente l’avevano rimandato a una qualche confusa fotografia degli anni addietro, che però non era stato capace di metter subito a fuoco. Adesso che la calma della notte favoriva il galoppare delle rimembranze, gli furono chiari gli ambienti di un’altra scuola, un’altra classe, un altro mondo. Come un lampo, gli traversò la mente l’immagine di Rita, sua compagna al liceo e della quale s’era innamorato, ricevendo convinto ricambio. Poi tutto era di colpo finito, la frequentazione dell’istituto da parte di lei, la speranza d’averla accanto per sempre da parte di lui. Il giovane studente d’allora non ne aveva mai compreso la ragione, l’anziano prete d’oggi s’era persuaso dell’idea che tutto fosse appartenuto a un disegno superiore. Senza quell’addio, infatti, egli non avrebbe dato il suo alla vita secolare.
Rigirandosi sopra la coperta di lana marrone a righe beige, don Barnaba venne preso da un sentimento d’angoscia. Gli succedeva sempre, quando riviveva la storia del suo primo, e unico, amore: sentiva come un ascensore salire e scendere dentro di sé, e veniva scosso da ricorrenti sussulti, quasi che lo sgradito ospite s’arrestasse ad alcune fermate dei ricordi. Aveva perfino consultato due medici, temendo di soffrire d’epilessia o qualcosa di simile, ma gli era stato risposto che stava benissimo di salute. Di cuore, decidesse lui.
Si levò a sedere sul letto e guardò fuori della finestra. Il nevischio del dicembre inoltrato rendeva precaria la visibilità del lago, e però chiarissima la visione degli anni ormai lontani e perduti, dei giorni trascorsi in uno sbrigliato fantasticare con Rita, delle ore d’abbandono che s’erano spensieratamente concessi. Poi, una mattina, lei gli disse ch’era costretta a lasciare il liceo. Il motivo stava nell’urgente necessità di trasferirsi in una città del Sud accanto a una cugina che aveva perduto la madre, restando sola con l’anziano genitore.
Era ormai primavera avanzata, e nessuno in classe capì perché Rita non avesse voluto almeno concludere l’anno scolastico. Tantomeno lo capì il ragazzo cui s’era promessa per la vita. Non gli volle dare spiegazioni ulteriori, e il congedo fu più brusco che addolorato. Né vi seguì alcuno scambio di corrispondenza. Rita, che dopo qualche mese venne raggiunta dai genitori, scomparve dalla memoria di chi l’aveva conosciuta. Ma non da quella di chi l’aveva amata.
Alzatosi, don Barnaba s’avvicinò alla finestra. Adesso riusciva a scorgere, di là dal nevischio, il lago arruffato che resisteva all’incalzare del maltempo. Gli sembrò una metafora del suo resistere all’addio di Rita, di cui gli era rimasta, tra le tante possibili, una singolare immagine di quando s’erano salutati per sempre: la carezza di lei al segno violaceo e irregolare, una voglia, ch’egli racchiudeva nel palmo della mano sinistra. Aveva la forma d’un rombo, con al centro qualcosa di simile a un’infiorescenza, ad alcuni petali. O, forse, a quei fiocchi sempre più grandi in cui s’era andata rassodando la nevicata, lì fuori del collegio. Il collegio, già. Ricondotto dagli eventi atmosferici al presente, il rettore convenne con se stesso ch’era l’ora di cercare il sonno. E rapidamente lo trovò.
La domenica successiva, che cadeva a pochi giorni dal Natale preludendo a vacanze agognate dagli allievi ma non da lui, don Barnaba presiedette come al solito la messa delle undici nella cappella d’impianto romanico. E strigliò da par suo l’uditorio dei collegiali, accomunati in un’infuocata reprimenda per avere trascorso una settimana più d’impunito fannullismo che di dedizione allo studio. In queste occasioni -ch’erano poi quasi tutte le occasioni che lo vedevano protagonista sull’altare- si sporgeva dal leggìo rafforzando l’invettiva con un plastico gesto ammonitore. Pareva allora che i mattoni della volta, i capitelli di marmo e le travi di noce scuro acquisissero una personalità e si muovessero insieme con lui, fiancheggiandone l’intemerata.
Finalmente rientrato nell’alveo della liturgica tranquillità, riprese il percorso di preghiera, corrisposto dagli echi inappuntabili dei presenti, nessuno dei quali osò sottrarsi all’accompagnamento vocale. Né, poco oltre, al rito purificante della comunione. Uno dopo l’altro sfilarono davanti al calice sostenuto dal chierichetto e dal quale il celebrante pescava l’ostia, consegnandola nelle loro mani aperte. Un gesto intenso, e tuttavia divenuto ormai meccanico anche per un sacerdote così compreso della sua spiritualità. Ma quella mattina l’automatismo s’interruppe tutt’a un tratto quando, sul palmo della mano sinistra del comunicando di turno, don Barnaba scorse ciò che da un’indistinta macchia si tradusse -con il progressivo avvicinarsi alla sua vista- in una violacea figura geometrica; in un’irregolarità a forma di rombo; in una voglia intersecata da un disegno floreale.
Madido di sudore, ultimò a fatica l’ufficio domenicale. Lasciata la sacrestia, si diresse nel salone vociante del refettorio ove, per dare inizio al pranzo con lasagne pollo patatine e fetta di torta, s’aspettava solo la sua benedizione. Ciò che il rettore fece meno solennemente del solito. Poi, anziché sedersi al suo riservato posto accanto all’economo, s’avviò verso le tavolate dei convittori, a ognuna delle quali sovrintendeva un insegnante. Indugiò alle spalle d’uno di loro, infine risolvendosi a chiamarlo per nome. Era il professore di matematica, che si girò rispondendogli come da consumata regola: <Dica, padre>.
Don Barnaba ebbe la sensazione che un ascensore gli scendesse nel cuore. Pensò che subito dopo le feste si sarebbe fatto visitare dal medico. Anzi, da due.
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