Roma senza papa. No, non parliamo del libro che rivelò lo scrittore “varesino” Guido Morselli, ma dell’unico Giubileo che si tenne a Roma in assenza del pontefice. Accadde nel 1350 in occasione del secondo Anno Santo della storia della Chiesa cattolica, cinquant’anni dopo il primo proclamato da Bonifacio VIII nel 1300. Lo indisse Clemente VI, al secolo Pierre Roger de Beaufort, quarto dei sette papi che regnarono dal 1305 al 1377 sulle rive del Rodano, in Francia. Un lungo confino che Francesco Petrarca definì “cattività avignonese” paragonando la città transalpina all’antica Babilonia dove erano stati deportati gli ebrei. A cui seguì il Grande Scisma d’Occidente che travagliò il mondo cristiano per altri quarant’anni.
La sovraffollata città provenzale godeva allora di una fama equivoca. Lusso e miseria, sfarzo e squallore si fondevano nel reticolo urbano che faceva corona al Palais des Papes, l’imponente sede gotica dell’aristocrazia ecclesiastica e sontuosa testimonianza del potere economico. Per costruirla le grandi banche fiorentine e senesi avevano impiantato le loro filiali ad Avignone facendone un centro dell’alta finanza. Intorno alla corte papale gravitavano uomini d’affari e agenti di commercio internazionali ma anche avventurieri, contrabbandieri e ricettatori dediti a loschi traffici. Tanto che il Petrarca se ne allontanò inveendo: “De l’empia Babilonia ond’è fuggita ogni vergogna, ond’ogni bene è fori, albergo di dolor, madre d’errori, son fuggito io per allungar la vita”.
Roma invece, abbandonata a sé stessa, viveva un Giubileo di abusi e prevaricazioni. Un anonimo cronista scriveva: “La citate de Roma stava in gravissima travaglia. Onne dia se commatteva. Da onne parte se derobava. Dove era luoco, le vergine se detoperavano. Non ce era reparo. Le piccole zitelle se furavano e manavanose a desonore. La moglie era troita al marito nel proprio letto. Li lavoratori, quanno ivano fòra a lavorare, erano derobati nella porta de Roma. Li pellegrini, li quali viengo per merito delle loro anime alle sante chiese, non erano defesi, ma erano scannati e derobati… Onne lascivia, onne male, nulla iustizia, nullo freno…”.
Dalle rive del Tevere una delegazione di cui faceva parte Cola di Rienzo era giunta ad Avignone sette anni prima, nel 1343, per chiedere a Clemente, insediato da appena un anno, di riportare in Italia la sede apostolica. Non ci riuscì, ma un risultato lo ottenne: convinse il papa a fare qualcosa di utile per Roma lontana. Il pontefice stabilì con la bolla Unigenitus Dei Filius di ridurre da cento a cinquant’anni l’intervallo tra un Giubileo e l’altro in modo tale che la generazione vivente, recandosi a Roma, potesse godere dell’indulgenza plenaria come era avvenuto cinquant’anni prima. Dalla cattedra di Avignone, il pontefice decise inoltre di aggiungere San Giovanni in Laterano alle basiliche di Pietro e Paolo dove a Roma si poteva lucrare l’indulgenza.
L’inizio dell’anno cadeva all’epoca nella ricorrenza della natività di Cristo e non il primo gennaio come oggi. La notte di Natale del 1349 si aprì nella città eterna un anno giubilare desolato e violento, per giunta preceduto nel 1348 da una micidiale epidemia di peste che imperversò in Italia e in Francia. Come se non bastasse, la vigilia fu funestata il 9 settembre 1349 da un terremoto che sconvolse Roma danneggiando torri, case e monumenti antichi. L’afflusso dei pellegrini fu comunque imponente e, tenuto conto delle precarie condizioni di sicurezza, i legati papali decisero di ridurre il numero dei giorni di visita alle tre basiliche e delle devozioni riservate ai romani. Rinunciando a molte “limosine”.
Ne furono scontenti gli osti e gli albergatori e si ripeterono le scene di mezzo secolo prima, letti introvabili, prezzi della carne alle stelle, vino, pane e fieno per i cavalli scandalosamente cari. Le solennità liturgiche, incoraggiate dal papa francese, catalizzarono l’attenzione di migliaia di pellegrini stranieri per tutto l’anno. Il solito Petrarca scrisse a un amico: “Non ti disponi a visitare Roma? Cammina l’Ibero insieme al Cimbro, con il Britanno, col Greco, con lo Svevo dalla fulva chioma e tu, italiano, te ne stai lontano? Possiamo aspettare un altro Giubileo?”. E l’autore del Canzoniere espresse in un sonetto l’ansia generale di partecipare alla perdonanza: “Movesi il vecchierel canuto e stanco del dolce loco ov’ha sua età fornita… e viene a Roma, seguendo ‘l desio per mirar la sembianza di Colui ch’ancor lassù nel ciel vedere spera”.
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