Facendo il verso al jingle “Perché Sanremo è Sanremo”, così memorabile e fortunato perché capace di incarnare l’inspiegabile connubio tra la città dei fiori e la musica italiana, da qualche giorno possiamo canticchiare “Perché Sanremo non sarà più a Sanremo”.
Eh già: perchè il Tar della Liguria ha stabilito che il Comune in modo non legittimo assegna direttamente l’organizzazione del Festival alla Rai, quando invece dovrebbe – anzi: dovrà farlo, dal 2026 – mettere a gara il prezioso marchio che dal 1951 rappresenta per l’Azienda di stato la gallina dalle uova d’oro, anzi dall’ugola d’oro. Il Comune – ricordiamolo – nel 2000 ha depositato il marchio “Festival della canzone italiana” che è così diventato un bene pubblico (come a suo tempo fu “Expo2015″) e deve dunque per legge essere concesso volta per volta al miglior offerente sul mercato.
Sorrisi a cinquantasette denti si sono immediatamente visti comparire dalle parti di Cologno Monzese, dove Piersilvio Berlusconi potrebbe riuscire a fare un colpaccio storico, mai riuscito nemmeno a suo padre, cioè portare la kermesse canora sul 5, farcendola di réclàme come si fa col tacchino con gli aromi. Ma sberluccicano le fauci anche di Discovery, che sarebbe ben felice di acchiappare il format e riconsegnarlo ad Amadeus, il suo conduttore fresco di contratto ma che al momento stenta a ingranare e che si ritroverebbe così per le mani il giocattolino che più di ogni altro nella storia televisiva recente ha contribuito a rilanciare.
E mamma Rai? Quel che una volta neanche sarebbe stato concepibile, abbiamo visto che negli anni può succedere. Basti pensare alla serie A, ai Mondiali, alle Olimpiadi: tutti eventi persi dall’azienda pubblica e finiti sulle private. Anche Sanremo è destinato a lasciare la sua balia televisiva, colei che dal lontano 1956 lo trasmette, da tempo lo organizza, lo promuove riverberandolo all’infinito nei suoi tanti programmi corollario? Può essere: le inflessibili regole degli appalti pubblici e la legge sovrana del dio quattrino non sanno che farsene dei sentimenti e delle tradizioni storiche.
A viale Mazzini – da quanto si apprende – c’è chi giura che non cambierà nulla, perchè non sarebbe interesse del Comune cambiare: un operatore privato che si aggiudicasse il marchio avrebbe infatti scarso interesse a rimanere a Sanremo, dove la tradizione festivaliera impone l’uso di un teatro piccolo, strutture inadeguate per la grande massa di pubblico e addetti al lavori che vi si accalcano, e una località priva di infrastrutture di comunicazioni pratiche (l’aeroporto più vicino è Nizza).
Ma – a onor del vero – un’immediata idea si è fatta avanti dalle parti della Rai: quella di organizzare un festival di Sanremo itinerante, non più a Sanremo e non più chiamato Sanremo. Una puntata a Tradate – per dire – una a Vibo Valentia e una a Lido degli Scacchi, a metà tra il Cantagiro e il Festivalbar, un po’ luna park e un po’ tournèe.
Nella storia televisiva si sprecano i tentativi di replicare Sanremo senza Sanremo, e sempre gli esperimenti sono miseramente falliti: ricordiamo tra gli altri la “Festa del disco” proposta dal transfuga Pippo Baudo a Canale 5 nel 1997 oppure il freschissimo tentativo di Amadeus sul 9, appena qualche settimana fa, con il trascurabilissimo (e infatti, trascurato dal pubblico) “Suzuky Music Party”.
La magia del Festival della Canzone Italiana di Sanremo è qualcosa di particolare e inspiegabile: è una settimana di primavera che arriva in inverno, è Modugno che allarga le braccia facendo rivivere il boom, è il lusso un po’ cafone che per una settimana diventa scenografia di un circo fatto di star e ciarlatani, è quell’insegna dell’Ariston sempre uguale da quando ne abbiamo memoria, come la faccia di nonna che occhieggia dalla foto sulla credenza.
All’ombra delle torrette gemelle del casinò, il tempo per tutti sembra fermarsi: è questa la magia irriproducibile del Festival di Sanremo. O meglio: del Festival a Sanremo.
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