«Le parole si ammalano, esattamente come i corpi delle persone». Lo dice David Meghnagi, docente di psicologia all’Università Roma Tre.
Le parole malate demonizzano l’avversario, falsificano i fatti e costruiscono alibi e giustificazioni. Creando espressioni distorte dilagano nel linguaggio comune e avvelenano gli animi.
Alcune parole colpite dalla malattia del linguaggio sono “apartheid, muro, clandestino, immigrato, rumeno, negro, rabbino, miliziani, sionismo, razzismo, islamofobia, muro, esecuzione, strage, clandestino, sparatoria”.
Intorno a parole come queste avviene uno slittamento semantico che, a seconda dei contesti e degli oggetti a cui si riferiscono, porta ad assumere significati devianti.
I termini malati di frequente diventano insulti usati per denigrare con una leggerezza all’apparenza innocua che invece apre la strada a contenuti razzisti e discriminatori.
Lo studioso prosegue affermando che quando le parole malate diventano modi di dire riconosciuti e adottati “dall’uomo della strada”, acquisiscono un potere che le trasforma in clava disumanizzando e violentando il linguaggio. La malattia corrompe i significati originari e si insinua in quelli che ne deriveranno nel corso del tempo estinguendo il loro primigenio significato.
Ma che cosa e chi ha reso possibile la diffusione di questo virus? Che è potuto dilagare tramite i mass media sostenuti da una certa pigrizia del giornalismo non solo italiano: l’abitudine di ricorrere a iperboli per raccontare fatti normali ha esasperato i toni al fine di rendere più accattivanti i fatti di cronaca. Ogni evento passa per tragedia fino a che si verifica una tragedia di grandi dimensioni che il linguaggio quotidiano non riesce a rendere comprensibile nelle dimensioni reali avendo ridimensionato sfumature e differenze a favore di un omologato linguaggio onnicomprensivo.
Qualche altro esempio dei modi con cui opera nel linguaggio una parola malata, secondo i linguisti: ad esempio “clandestino”.
Per il senso comune gli stranieri appaiono tutti come clandestini: clandestini gli uomini fuggiti dal proprio Paese per cercare salvezza per sé e per la famiglia, definiti tali in virtù di un reato, la clandestinità, che azzera la loro storia e i loro diritti.
Bisognerebbe poter ragionare sui diversi significati delle parole legate all’immigrazione.
Termini ritenuti sinonimi per una superficiale generalizzazione esprimono invece differenze importanti: “migrante” è colui che sceglie volontariamente di lasciare il proprio Paese per cercare un lavoro o per migliorare le proprie condizioni economiche; “rifugiato” chi ha dimostrato di essere vittima di una persecuzione personale nel proprio Paese; “irregolare”, colui che è entrato in un altro Paese eludendo i controlli di frontiera.
Un’altra espressione “malata” e molto abusata è l’espressione “Stato islamico”. Non esiste uno Stato islamico bensì un’entità che tale si è autoproclamata ma che agli occhi della maggioranza della gente viene legalizzata e posta al livello degli altri stati democratici. La corretta definizione dovrebbe essere invece “il sedicente Stato islamico”.
Per i semiologi parlare è già agire: le parole non servono solo a scambiare informazioni, ma anche a spingere all’azione: dire qualcosa in un modo piuttosto che in un altro cambia nel profondo l’impatto sulla realtà.
Parlare e scrivere parole comporta la costruzione di contenuti recepibili dagli individui e potenzialmente condizionanti. In questa prospettiva il giornalismo, utilizzando determinate parole di fatto “manipola” il pubblico inducendolo nel tempo ad assumere una certa posizione su un determinato tema.
Dunque anche per le parole malate, come per chiunque altro malato, urgerebbe una cura che al momento non si conosce ma che potrebbe cominciare riconoscendosi nelle parole di Sartre sul lavoro degli intellettuali: “La funzione di uno scrittore è quella di chiamare ‘gatto’ un gatto. Se le parole sono malate, spetta a noi guarirle”.
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