In via Volta, salendo verso Piazza Monte Grappa, sulla facciata del palazzo sulla sinistra è ancora illuminata l’insegna “Credito Bergamasco” ai cui piedi, tuttavia, si trova il BancoBpm creato dalla fusione della Popolare di Milano con il Banco popolare di Verona che aveva qualche anno prima assorbito la banca bergamasca. Più avanti, in via Marcobi, sempre sulla sinistra, sul balcone del grande palazzo spicca ancora una scritta: “Banca commerciale italiana”, una banca che non esiste da un quarto di secolo. E infatti sotto si trovano gli uffici del Credit Agricole. Più avanti, all’incrocio tra via Veratti e via Sacco, solo da pochi giorni è sparita l’insegna “Banca popolare di Vicenza” che ha avuto un’effimera presenza una decina di anni fa. Di fronte c’è la vecchia sede della Banca d’Italia, la banca delle banche, chiusa da cinque anni nell’ambito della ristrutturazione dell’istituto le cui maggiori competenze sono ormai passate alla Banca centrale europea.
Di fronte all’offerta pubblica di scambio formulata a metà novembre da Unicredit, la seconda banca italiana per dimensioni dopo Banca Intesa, verso Banco Bpm, anch’essa tra le più grandi del paese, viene naturale ricordare il grande processo di cambiamento che ha interessato, soprattutto negli ultimi anni, il sistema del credito. Lo chiamano risiko bancario ed è un processo i cui segni sono visibili anche a Varese. E infatti a tenere accesa la fiammella delle banche locali nel Varesotto è rimasta solo la Banca di credito cooperativo di Busto Garolfo e Buguggiate, una banca nata alla fine dell’Ottocento e che ora, con 17 sportelli in provincia, porta avanti con coraggio la filosofia di una banca locale, con un azionariato diffuso e una grande attenzione al territorio con una prospettiva non solo economica, ma anche sociale e culturale.
Un’eccezione positiva in una storia che ha visto Varese non particolarmente fortunata sul fronte delle banche locali. Si può ricordare che uno dei primi grandi crack bancari è stato proprio quello della Banca di Varese, istituto sorto il 29 maggio 1873 e chiuso il 22 febbraio del 1913, quando il tribunale ne decreta il fallimento. La crisi economica di quel periodo, unita alla cattiva gestione finanziaria, aveva portato la banca a chiudere gli sportelli anche perché a quell’epoca non esistevano strumenti particolari di salvataggio.
Una vicenda che ha messo in luce quanto fosse pericolosa l’attrazione della finanza e delle speculazioni, politica che aveva caratterizzato la gestione della banca rispetto all’attenzione verso l’economia locali, al credito verso le piccole e medie imprese strettamente legate al territorio varesino.
Più prudente fu la gestione del Credito Varesino, nato anch’esso alla fine dell’Ottocento e che si è sviluppato, almeno fino alla fine degli anni ’70 del secolo scorso, con una forte presenza su territorio anche grazie all’incorporazione di piccole banche locali meno resistenti alle periodiche crisi economiche. Nel 1973 la maggioranza delle azioni venne acquisita prima dalla Centrale e poi dal gruppo Bonomi, che nel 1984 venne travolto dal fallimento del Banco Ambrosiano e il controllo passò così alla Popolare di Bergamo che in pochi anni la incorporò. A sua volta l’istituto bergamasco venne acquisito da Ubi banca nel 2017, la quale poi entrò a far parte del gruppo Intesa, il quale dovette cedere tuttavia alcuni sportelli, come quello di Varese, che vennero acquisiti da Bper (Banca popolare Emilia Romagna).
Come si vede il sistema bancario ha subito forti scossoni negli ultimi decenni. Fusioni e acquisizioni hanno tuttavia impedito che le difficoltà finanziare di molti istituti venissero pagate con piccole o grandi perdite dei risparmiatori.
Ora se andrà in porto l’operazione Unicredit- Banco Bpm avremo un nuovo ribaltone per banche che hanno una presenza significativa anche in provincia di Varese. Nascerà un nuovo colosso secondo la logica del gigantismo bancario, una logica che potrà far piacere ad azionisti e uomini della finanza speculativa, ma è tutto da dimostrare che possa essere la base per il sostegno all’economia reale e quindi ai territori.
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