Sono entrate nel nostro vocabolario parole ed espressioni costruite ad hoc intorno al fenomeno della violenza sulle donne che troppo di frequente porta a conclusioni tragiche. Una per tutte l’espressione “mascolinità tossica”, che dovrebbe suscitare una reazione immediata, una domanda, qualche collegamento causale.
La sociologa franco israeliana Eva Illouz ha definito la locuzione “maschilismo tossico” come concetto “bulldozer”, un concetto che provoca un sussulto linguistico e allo stesso tempo mette in movimento l’interesse mediatico che fa crescere centinaia di siti internet, blog, articoli di giornale, post sui social network.
Il concetto non è nuovo in assoluto: lo ha elaborato negli anni ’80 uno psicologo americano, Shepherd Bliss, che ha definito la mascolinità tossica come “l’insieme dei tratti maschili socialmente regressivi che servono a favorire il dominio, la svalutazione delle donne, l’omofobia e la violenza insensata”.
Questa terminologia ha permesso di mettere a fuoco un aspetto non riconosciuto e cioè che il modello maschile imposto da secoli a generazioni di ragazzi possa essere non solo inadatto ma anche dannoso.
La mascolinità tossica non mette in discussione le caratteristiche normalmente associate alla sfera maschile come ad esempio coraggio, passione, prestanza fisica, bensì la loro estremizzazione che produce gravi danni sociali e culturali oltre che familiari.
Ma come riconoscere la tossicità maschile?
Sono tre i tratti principali che mantengono in vita in un soggetto maschile le strutture mentali tipiche della società patriarcale: la durezza (che include la forza fisica, l’insensibilità emotiva, l’aggressività nel comportamento); l’antifemminilità (con il rifiuto di mostrare emozioni o di chiedere aiuto); infine la ricerca di potere sociale e finanziario che possa garantire il rispetto da parte degli altri.
I tradizionali valori maschili diventano tossici quando sono perseguiti ed esaltati condizionando così le azioni e i comportamenti del maschio che non può permettersi di perdere lo status di “vero uomo”.
Gli imperativi “devi essere forte”, “non devi piangere”, a cui sono stati educati, spinge certi uomini a chiudersi in sé stessi e a non condividere con altri i propri sentimenti perché essere “sensibili” così come chiedere aiuto sono comportamenti riservati alle femmine.
Gli uomini cresciuti in un contesto patriarcale sono portati a identificarsi con la capacità di dominio e a credere che esercitare il potere sulle donne sia un loro diritto.
La mascolinità tossica, come conseguenza, considera inferiori le donne e misconosce ed emargina gli uomini che non rientrano nei cliché classico-patriarcali.
Consiglio la visione del film presente nelle sale cinematografiche: “Il ragazzo con i calzoni rosa” che trae ispirazione dalla vera storia di Andrea Spezzacatena, quindicenne vittima di bullismo e di cyberbullismo omofobo, che nel 2012 si tolse la vita.
La mascolinità tossica ha un nome apertamente esplicativo: il soggetto che ne è affetto è in grado di avvelenare ciò con cui entra in contatto, lasciando dietro di sé guasti quasi sempre irreversibili.
Prevenirla è possibile perché la mascolinità non è per natura tossica. Tossica è la cultura ancora dominante della mascolinità che si deve superare a partire dagli strumenti che i diversi settori della nostra società hanno già messo in campo: è una strada lunga ma praticabile.
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