Un libro spesso è la scintilla per molte riflessioni. Sicuramente accende un fuoco “Gli oggetti e la vita” di Giovanni Starace. È una lettura piacevole, densa di idee e di suggestioni a partire dal sottotitolo: “Riflessioni di un rigattiere dell’anima sulle cose possedute, le emozioni, la memoria”.
Il libello è stato pubblicato nel 2013 ma non è per nulla datato. Poco importa se nelle pagine scritte da Starace, docente di psicologia e saggista, non si trovi il termine smartphone ma semplicemente cellulare. Quello che conta è che il mini computer, embrione dell’intelligenza artificiale, che quasi tutti possediamo, rappresenta l’oggetto simbolo dei nostri tempi. E forse delle nostre emozioni e della nostra memoria. Le considerazioni di Starace, che fa sua la lezione di grandi pensatori del Novecento sul significato del nostro relazionarci con gli oggetti, meritano di essere lette.
Il 23 novembre potrebbe essere una buona occasione. La data non è casuale. In quel giorno del 1992 l’IBM presentò al mondo un “oggetto” che qualche anno dopo sarebbe stato chiamato Smartphone. E la rivoluzione non fu solo di un mezzo comunicativo, provocatoriamente definito “smart”, intelligente, ma un terremoto nel nostro modo di essere. La nostra arte di esistere, come avrebbe detto con profondità Umberto Regina, recentemente scomparso. Difficile e maltrattata arte, a dire il vero.
Starace ci ricorda che gli oggetti “sono materia viva. Possono incorporare un valore mercantile ma anche una struttura di relazioni sociali e un sistema di significazioni”. Insomma il nostro modo di essere. Senza cadere nella trappola di demonizzare l’oggetto smartphone non dobbiamo mai rimanerne passivamente affascinati. Ci condiziona e spesso ci illude. Forse l’inganno maggiore è quello di farci sentire semplice il complesso, perché facile e intuitivo da usare anche senza conoscere i complicati meccanismi sottesi al suo funzionamento.
Ci inganna nel farci sentire in relazione con gli altri solo perché connessi o nel pensare che la realtà sia colta dal maggior o minor numero di pixel di uno scatto fotografico. E ci crea nuove paure: la paura che i nostri dati sensibili o semplicemente privati vengano rubati, quasi violentati. Oppure che lui – spesso usiamo inconsciamente un pronome personale per questo oggetto – abbia la memoria piena, facendoci perdere la nostra. Si potrebbe continuare.
Gli argomenti – tra il serio e il faceto – non mancherebbero in questo passaggio definito da alcuni dall’Homo sapiens all’homo smartphonicus. Basterebbe ricordare con nostalgia – come ha scritto Starace – quanti oggetti sono passati anche fisicamente da generazione a generazione. Quasi di sicuro nessuno lascerà in eredità l’oggetto smartphone.
Forse anche per questo è sempre più importante ricordare. Ancora una volta la data del 23 novembre ci aiuta. Era il 1890 quando a San Francisco in un apparecchio abbastanza grezzo di legno di quercia si potè introdurre una monetina. Era l’inizio della storia del jukebox. Storia di un oggetto ma soprattutto di un modo di vivere.
Ancora una volta Starace ci regala un input riflessivo, affermando che ci sono oggetti “segno di una certa socialità”. La musica scelta al jukebox era esposta e condivisa… era strumento fondamentalmente democratico. Il proverbio “a buon intenditor poche parole” si applica molto bene al cambiamento che stiamo vivendo in cui rischiamo di perdere non solo certi oggetti. I Giapponesi hanno una parola, “Tsukumogami”, per dire che anche gli oggetti hanno un’anima, un’anima toccata dalle tante persone che ne hanno fatto uso…
In fondo è la nostra responsabilità a usare con consapevolezza, anche il più sofisticato smartphone.
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