Il calo delle nascite e la progressiva crescita della quota di “anziani” nella società sono due temi centrali per delineare il difficile futuro che i giovani di oggi si troveranno a costruire. Non ci sono, ovviamente, soluzioni facili, ma per fare qualche passo nella direzione giusta è necessario valorizzare al massimo le opportunità che le grandi trasformazioni di scienza e tecnica ci stanno presentando. Tra queste il primo piano è il lavoro, una dimensione fondamentale della crescita personale e sociale.
Sono passati trent’anni da quando Jeremy Rifkin pubblicava “La fine del lavoro”, un libro da un lato ampiamente profetico, ma da un altro lato esageratamente drammatico. Già trent’anni fa la rivoluzione tecnologica e informatica appariva come uno sconvolgimento caratterizzato dalla inevitabile scomparsa dei vecchi “mestieri” e dal crescente spiazzamento delle competenze acquisite dalle generazioni meno giovani.
I computer occupavano un posto crescente anche se internet muoveva solo i primi passi e le capacità di memoria sembravano porre ancora dei limiti all’espansione delle nuove tecnologie. E se a questo aggiungiamo quella globalizzazione che alla fine del secolo scorso sembrava inarrestabile abbiamo una panoramica che giustificava il pericolo di avere in poco tempo una massa sempre più consistente di disoccupati.
La tecnologia ha fatto passi ancora più rapidi di quelli che Rifkin prevedeva, ma gli effetti sul mercato del lavoro sono stati, per ora, meno dirompenti di quanto lasciavano pensare le previsioni più pessimistiche.
Il mondo del lavoro è tuttavia realmente cambiato e mentre la globalizzazione ha avuto significative battute d’arresto un nuovo pericolo si affaccia con sempre maggiore evidenza, non tanto quello dell’intelligenza artificiale, quanto quello di una denatalità che mette a rischio gli equilibri sociali delle nazioni più sviluppate.
C’è un mondo nuovo che andrebbe affrontato con strutture e politiche nuove.
È necessario così rivedere i temi della formazione, della flessibilità, delle disuguaglianze territoriali, dello smarrimento del senso del lavoro, della difficoltà di stare al passo con la crescente domanda di competenze. Ci sono in discussione i rapporti tra scuola e professioni, così come quelle, altrettanto importanti, tra famiglia e lavoro. Su quest’ultimo tema, fondamentale per affrontare la crisi della natalità, sarebbe necessario dare più ampio rilievo al Codice di autodisciplina per le imprese responsabili verso la maternità proposto dalla Ministra della Famiglia, della Natalità e della Pari Opportunità, per favorire il coinvolgimento diretto del mondo aziendale per creare contesti favorevoli alle donne lavoratrici: un insieme di buone pratiche che potrebbero favorire un maggior tasso di occupazione femminile, un tasso che ora ai livelli più bassi tra i paesi europei.
“In base a concrete esperienze – sottolinea il Codice – si propongono tre ambiti di comportamento aziendale: il favore per la continuità di carriera delle madri, le iniziative di prevenzione e cura dei bisogni di salute, l’adattamento dei tempi e modi di lavoro insieme al sostegno alle spese per la cura e l’educazione dei figli”. Non solo teorie. La logica di fondo è quella di un’attenzione da parte delle imprese e delle istituzioni per considerare lavoratrici e lavoratori nella loro integralità, come persone protagoniste della società con riconosciuti diritti e altrettante responsabilità. Nella convinzione, tutt’altro che retorica, di trasformare i problemi in opportunità. Perché l’esperienza di molti paesi dimostra che la natalità è strettamente legata al tasso di occupazione femminile: l’Italia è agli ultimi posti in entrambe queste classifiche. Affrontare questi problemi vuol dire offrire ai giovani la speranza necessaria per accettare l’affascinante sfida della genitorialità.
You must be logged in to post a comment Login