Giorni fa, classe seconda media, Varese: viene indetto tra gli allievi un concorso di poesia. Tra di noi: alla notizia, m’è sembrato zelo cattedratico extralarge. Forse l’intento d’affermare una stravagante, pur se utile, passione educativa. O la voglia di rendere un surplus di servizio, migliorando col tic dell’originalità il carnet d’istruzione disponibile. Poi ho cambiato idea, ritirando il pregiudizio e pentendomi d’averlo ipotizzato.
Mi son guardato attorno, come da routine quotidiana, e ricevuto la conferma del trionfo -assolutamente trionfo, ormai- della mediocrità. Non certo quella aurea di firma oraziana, il giusto mezzo fra estremi ed eccessi. E invece quella del conformismo, della piattezza, del grigiore. Della sensibilità a tutto quanto è insignificante nel suo illusorio fascino materiale; e dell’insensibilità verso le cose che contano, gl’impulsi che premiano, la vera umanità insomma.
Allora ho pensato che suggerire a ragazzi di dodici anni d’industriarsi a poetare non fosse un esercizio estemporaneo/sterile, quasi un obbligo fine a sé stesso, così da collocare una medaglia in più nella gloriosa bacheca dell’istituto. Ho pensato che fosse un click capace d’accendere l’interiorità profonda degli studenti, conducendo a scoperte imprevedibili. Anzi, “alla” scoperta imprevedibile: la miniera dell’animo, i suoi sorprendenti filoni, il richiamo a portarla/portarli in superficie. Dunque un suggerimento pedagogico affatto banale e invece meritorio. Soprattutto un avviso ai naviganti, ai giovanissimi naviganti, dell’esistenza: c’è altro, nel giorno dopo giorno di ciascuno, che non sia la tensione a saziarsi di virtualità, pigrizie, inettitudini, disimpegni, egoismi.
Voluto o no che fosse, l’invito a rendersi poeti m’è sembrato un antidoto di soccorso alla trasandatezza morale. Certo, non scelta dagli studenti, e però da essi talvolta subìta a causa dell’intorno che li circonda. Molti riescono a fuoruscirne, acquisendo in fretta la personalità/l’autonomia in grado d’impermeabilizzarsi al banalismo. Molti altri no, rischiando senz’avvedersene di nuotare nel vuoto d’una vita artificialmente ritenuta piena. La poesia, insegnano i classici e i loro epigoni, rappresenta più una medicina dello spirito che un’arte dello scrivere. E anche qualora la seconda facesse premio sulla prima, ben venga la cura. Specialmente oggi, epoca in cui circolano virus sempre più pericolosi. Li si respira, li si legge, li si digita, li si scambia senza cogliere il verso giusto (l’ispirazione di percorso) che orienta a bellezza, affetti, intimismo. Poesia uguale scintilla della fiducia e germe della speranza: ce n’è bisogno dentro un’aula di studio, e figuriamoci fuori. Nel variopinto -ah, che frequenti/improbabili colori- mondo adulto. Mettiamoci tutti in concorso.
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