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Parole

COME SIAMO MESS*

MARGHERITA GIROMINI - 08/11/2024

schwaLa lingua si modifica, si arricchisce, manda in soffitta parole obsolescenti, ci costringe a imparare nuove sigle e un fiume di parole straniere che ci aprono significati legati a concetti finora sconosciuti.

In questa continua evoluzione entra in campo l’analisi di strutture linguistiche, grammaticali e sintattiche. Quanto c’è voluto per accettare il femminile di vocaboli nati al maschile riferiti a lavori e a professioni demandate agli uomini?

Le battaglie per rivendicare la normalità di sindaca, avvocata, assessora e ingegnera hanno visto non poche le resistenze dei puristi della lingua. In parte ora ci siamo, ma serve sottolineare che il contrario non si è ancora verificato: non ci sono, anche se esistono le persone di riferimento, il casalingo, il ricamatore, lo stiratore, il colf.

Negli ultimi decenni anche istituzioni come la Crusca e dizionari come la Treccani hanno compiuto ampliamenti significativi del nostro patrimonio linguistico includendo tra l’altro oblio oncologico, iperturismo, gravidanza solidale, transilienza, pizzo di Stato, spottone, varista e molti altri in prevalenza generati dalla rete.

Nel corso di queste ondate riformatrici del linguaggio il burocratese dei ministeri ha prodotto i propri neologismi dalla matrice oscura: gli spazzini sono diventati operatori ecologici, le scuole si sono ritrovate con il personale “non docente” che ha trasformato bidelli e impiegati in collaboratori e assistenti amministrativi.

Anche il carcere è stato oggetto di una revisione linguistica che ha sostituito termini gergali con nuove parole di dubbia efficacia: la cella – che tale rimane per la sua ristrettezza – ora si deve chiamare “camera di pernottamento”.

Il “non vedente” Luigi Manconi, scrittore, critico musicale nonché ex senatore, che ha perso la vista a causa di una malattia progressiva, pretende di essere chiamato per ciò che si sente ed è veramente, ovvero “cieco”.

Ancora molto discusso l’uso del plurale maschile che sottintende l’inclusione del genere femminile. In italiano diciamo: gli alunni di una scuola, i partecipanti al convegno, i cittadini italiani, i rappresentanti dei genitori, gli iscritti al sindacato. Alcuni linguisti, in prevalenza donne, cioè linguiste, mettono in discussione la legittimità inclusiva di un plurale che non espliciti la presenza del genere femminile.

Dunque rivolgendosi ad una platea composita di uomini e donne si dovrebbe precisare: “buonasera gentili convenuti e gentili convenute; in una classe mista ci si dovrebbe rivolgere alla scolaresca con un “buongiorno bambini e bambine”, proseguendo durante le ore di lavoro con “bambine e bambini… prendete il quaderno, ascoltate, alzatevi”. Avendo assistito a una lezione condotta da un’insegnante attenta a questa pratica ne ho dedotto una certa rigidità di gestione.

Anche per la lingua scritta si è alla ricerca di soluzioni che aggirino il plurale maschile onnicomprensivo. Siamo passati dall’asterisco a fine parola con “Questo lavoro è dedicato a tutt*” alla proposta di sostituire l’asterisco con il segno della “schwa”, che definisce il plurale inclusivo con l’aggiunta a fine parola di una “e” rovesciata.

Quindi la frase che sta sopra diventa “Questo lavoro è dedicato a tuttǝ”. Il primo ad usare tale modalità espressiva è stato il Comune di Castelfranco Emilia con lo scopo dichiarato di adottare “un linguaggio inclusivo”. Ma che cosa significa “schwa”, perché sarebbe o è il simbolo adatto a risolvere il problema?

Viene utilizzata da sempre dai linguisti: è parte dell’alfabeto fonetico internazionale e indica una vocale intermedia, in prevalenza una vocale debole se non l’assenza totale di una vocale. Che dire se non che lasciamo agli esperti, e alle esperte l’individuazione di modalità più flessibili per raggiungere il dovuto rispetto alle differenze di genere?

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