È nel DNA della gente di Varese e di tutti i tifosi che Pallacanestro Varese raccoglie nel resto d’Italia – non sono pochi come si potrebbe pensare: fatte le debite e logiche proporzioni tra calcio e sport dei canestri, siamo davanti a una piccola Juventus della palla a spicchi – preoccuparsi anche eccessivamente delle vicende della propria squadra.
Colpa di una sorta di maledizione, pure. In 15 anni – tra la fine degli anni ’60 e la fine del decennio successivo – il glorioso sodalizio cestistico prealpino ha vinto tutto quello che c’era da vincere, è salito in cima al mondo, ha portato una sconosciuta realtà di provincia nelle cronache sportive internazionali e ha scritto dei record (per esempio le 10 finali consecutive di Coppa Europa – oggi Eurolega – disputate consecutivamente) mai raggiunti, né battuti.
Nei successivi 50 lustri, invece, due soli trofei, peraltro conquistati in un solo anno, il magico 1999. Altre finali? Non serve nemmeno una mano per contarle… Partecipazioni ai playoff? Rare. Lotte per non retrocedere? Ormai una costante. Nell’animo dei supporter, però, è rimasto l’eco della gloria, e nessuno si rassegna a patire per gli scarsi risultati ottenuti o ad accettare pesanti lezioni da avversari storici così come da parvenu del pallone arancione: l’esame di realtà – oggi è cambiato il mondo rispetto ai tempi del dominio di Varese- può funzionare per la mente, ma non per le viscere.
E allora davanti all’inizio di stagione disastroso – uno dei peggiori di sempre – della Openjobmetis oggi allenata da un allenatore argentino, Herman Mandole, anche per Luis Scola, l’ex campione che ha rilevato la società tre anni fa e sta cercando di assicurarle un futuro, è in esaurimento il grande credito di cui ha goduto nei primi passi della sua avventura locale.
Errori reiterati nella costruzione della squadra, arrivi e partenze di giocatori senza alcun possibilità di fidelizzazione, scarsa volontà comunicativa, metodi annunciati come rivoluzionari e quindi adatti ad affrontare la modernità del basket, ma recepiti a conti fatti come semplici e poco proficue “stranezze”: sono le contraddizioni del General a far riflettere maggiormente, ovvero quell’evidente scostamento tra quelli che sono stati i fili conduttori della sua storia di giocatore (una storia leggendaria) e l’imprinting che ha invece dato al suo incedere da dirigente.
Esse si ravvisano in primis nel basket giocato. Scola è stato tra gli interpreti più rinomati dell’importanza del gioco sotto canestro, in particolare di quello che tecnicamente si definisce “post basso”, lo scontro “corpo a corpo” tra difensore e attaccante nel quale quest’ultimo arriva al tabellone di spalle e a suon di palleggi, finte, movimenti sul perno e ganci. Una volta a Varese, Scola lo ha letteralmente vietato, imponendo un gioco veloce e basato sulla (teorica) convenienza statistica dei tiri, interpretato da giocatori appunto rapidi ma leggerissimi, sovrastati una domenica sì e l’altra pure da avversari ben più attrezzati fisicamente.
E ancora. L’olimpionico nella sua carriera è stato allenato da alcuni grandi allenatori, professionisti capaci di lasciare un’impronta sempre ben visibile nelle compagini che hanno condotto. Per la “sua” Varese, invece, ha scelto finora sempre e solo dei giovani di buone speranze, esordienti totali in Italia e in Europa. Al bando l’esperienza, al bando l’impronta, al bando la “scuola” italiana: nel sistema scoliano i coach sono semplici sacerdoti di una “regola” che non possono negoziare.
Ma andiamo anche all’esterno del parquet. Scola ha trascorso 10 anni nella NBA, universo nel quale la comunicazione è sacra e regolamentata in maniera maniacale: per i protagonisti che si sottraggono al microfono o al taccuino dei giornali sono previste addirittura le multe. Lo Scola del Sacro Monte mostra a contrariis un’idea… ermetica della comunicazione: meno giornalisti ci sono intorno, meglio è, meno si comunica, meglio è.
E ancora, la gestione dei tifosi, in particolare degli ultras. Tutto ci saremmo aspettati da questa nuova gestione – fondata su un argentino (Sud America, patria di “curve” tra le più calde del globo) che però è cresciuto con il modello americano che non concepisce scontri, sfacciato tifo contro e problemi di ordine pubblico – tranne che rimanesse in imbarazzo e senza reazione davanti alle “prodezze” dei facinorosi (tra)vestiti da supporter, le ultime a Trieste domenica scorsa. Invece sta accadendo.
Contraddizioni, sì, ma anche tanta difficoltà davanti a un cammino ben più arduo di quanto evidentemente preventivato. “Adda passà à nuttata”, direbbero a Napoli, e questo è certo. Ma forse anche una riflessione a 360° su certe idee sarebbe opportuna.
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