È giusto che i giornali si schierino per questo o quel partito, che appoggino questo o quel candidato quando i cittadini sono chiamati al voto? Il dilemma è rimbalzato dagli States in occasione della combattutissima sfida presidenziale fra il repubblicano Donald Trump e la democratica Kamala Harris. Ad accendere la miccia delle polemiche ci ha pensato Jeff Bezos, proprietario di Amazon ed editore del quotidiano Washington Post, quello dei 65 premi Pulitzer e dello scandalo Watergate che costrinse il presidente Richard Nixon a dimettersi nel 1974 per spionaggio elettorale. Ebbene Bezos, a lungo ritenuto l’uomo più ricco del mondo, ha imposto alla redazione di non pubblicare un endorsement a favore di Kamala Harris e la sua decisione ha provocato la rivolta dei giornalisti e un salasso di lettori.
Il magnate della carta stampata si è giustificato affermando che gli americani non hanno alcuna fiducia nei media e che gli endorsement alimentano una percezione di non indipendenza che danneggia ulteriormente la credibilità dei media. La spiegazione non ha fermato il diluvio di disdette degli abbonamenti e la catena di dimissioni eccellenti, anche perché poche ore dopo l’annuncio del Post, Trump ha cordialmente salutato i dirigenti della Blue Origin, la società spaziale di Bezos che costruirà un veicolo per portare gli astronauti sulla Luna grazie a un contratto da 3,4 miliardi di dollari con la Nasa. Qualcuno ha stigmatizzato l’episodio parlando di spudorata tutela di interessi privati, altri lo hanno definito un atto di codardia.
Bezos non è l’unico editore che ha scelto di non schierarsi. Anche il Los Angeles Times ha evitato di esporsi e puntualmente è emerso che nel 2017 il proprietario Patrick Soon-Shiong, miliardario del settore biotech, era in trattativa con Trump per un ruolo di supervisione dell’assistenza sanitaria statunitense. Voci, sospetti, dietrologie che pongono una domanda: la neutralità dei media è forse solo una questione di soldi? O è garantita dalle norme professionali? Nel 2008, per la kermesse elettorale fra il democratico Barack Obama e il repubblicano John McBain, novantadue dei cento quotidiani più diffusi negli Usa scelsero di essere imparziali, nel 2020 erano ridotti a cinquantaquattro e quest’anno sono ancora di meno.
La tendenza è dunque quella di schierarsi per una parte politica, forse perché la condiscendenza verso il presunto cavallo vincente paga. Soprattutto in tempi in cui l’industria dell’informazione ha pesanti problemi finanziari. Ma è corretto difendere il proprio tornaconto economico evitando di perdere le simpatie di un candidato? Lo è anche se ciascuna parte è convinta che sia la scelta finale tra il bene e il male? Che cosa dicono le regole deontologiche dei media? Ancora: i giornali e le tv stanno sempre dalla parte del cittadino? E quanto li condizionano gli interessi degli editori? Sono quesiti su cui riflettere, senza farsi troppe illusioni. I manuali di giornalismo si avventurano nel territorio dell’etica e chiariscono i valori che ispirano la professione.
Il presupposto di partenza è che il lettore si fida del lavoro di chi scrive e s’indigna se non è obiettivo. Certo, i ruoli dell’editore e del giornalista sono diversi, in qualche caso discordanti e quasi contrapposti, difficilmente conciliabili. La notizia dovrebbe informare e basta, disinteressandosi della reazione positiva o negativa che suscita nell’elettorato. I caposaldi del giornalismo anglosassone sono la precisione e l’imparzialità e, nei codici deontologici delle grandi testate americane, i cronisti devono apparire neutrali affinché il lettore mantenga nei loro confronti la massima fiducia. Imparzialità vuol dire completezza, chiarezza e onestà. Se sia possibile coniugare il rigore professionale con la partigianeria, lo chiediamo al lettore.
A distanza di oltre un secolo, nel momento in cui il consumo di notizie ha raggiunto in tutto il mondo ritmi prima inimmaginabili e, con lo sviluppo dei social, rischia paradossalmente di rovesciarsi in disinformazione, vale la pena rileggere il monito di Joseph Pulitzer, grande giornalista ed editore che nel 1912 istituì la scuola di giornalismo della Columbia University e un fondo per finanziare il più ambito premio americano di giornalismo, a lui intitolato: “Un’opinione pubblica bene informata è la nostra corte suprema. Perché ad essa ci si può sempre appellare contro le pubbliche ingiustizie, la corruzione, l’indifferenza popolare o gli errori del governo. Una stampa onesta è lo strumento efficace per difendersi”.
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