Che cosa resta della telenovela «Sangiuliano–Boccia»? Di quella storia, cioè, dell’ex ministro della Cultura e della sua collaboratrice-esperta che, per settimane, ha occupato le cronache di giornali e TV? Niente. Un gran senso di spaesamento, come quando c’è nebbia, dove tutto si confonde, tra questioni personali e doveri istituzionali. Un canovaccio che si ripete anche nelle puntate successive, senza scorgere un minimo d’imbarazzo.
Come tutti sanno, la storia comincia a fine agosto di quest’anno e da subito ha l’aria d’essere un feuilleton scollacciato. Il protagonista è un ministro della repubblica che intrattiene una relazione sentimentale burrascosa con un’aspirante consigliera per i grandi eventi della Cultura. Si viene a sapere che i due sono addirittura arrivati alle mani e che il Nostro è stato costretto a ricorrere alle cure mediche per arginare, con diversi punti di sutura, una ferita profonda, infertagli dall’imprenditrice campana. Una cicatrice nel bel mezzo della testa monda, ben visibile alle telecamere. L’epilogo della vicenda è di una decina di giorni più tardi, quando si confessa in diretta TV, per quasi un quarto d’ora, durante la quale il malcapitato ammette le sue debolezze e si commuove fino alle lacrime. È quasi una trasmissione a reti unificate, dove si confondono in maniera surreale questioni familiari (comprensibilmente), con compiti di governo, senza il minimo imbarazzo per l’amministrazione che rappresenta (il MIC), colpita e affondata sull’altare del pettegolezzo. Un paio di giorni dopo arriveranno le dimissioni.
La seconda puntata di questa novella è l’arrivo di un nuovo ministro che giura fedeltà alla Repubblica. S’insedia e, tra le prime cose che fa, spedisce a casa, in malo modo, il capo di gabinetto del precedente inquilino di via del Collegio Romano e nomina nella funzione un suo fidato collaboratore, con cui aveva lavorato durante il precedente incarico al Maxxi, il museo d’arte contemporanea di Roma. Il nuovo arrivato non fa in tempo a sedersi che a sua volta deve dimettersi, accusato, dai media, di aver avuto un comportamento scorretto, proprio nel museo da cui proviene, per degli incarichi di consulenza conferiti al proprio compagno. Vero o falso che sia, a questo punto, si pone il problema del sostituto. Il nuovo ministro rivendica lo ius, il diritto, della nomina, come a dire che l’offesa subita con quella defenestrazione, va lavata col privilegio di una sua propria nomina.
Ora, bisogna sapere (e non è detto che tutti lo sappiano) che quella di capo di gabinetto è una funzione importante, delicata e strategica. Non è quella di un politico, ma neanche quella di un funzionario. È tra i cosiddetti uffici di diretta collaborazione del ministro (insieme a segreteria, capo ufficio legislativo, ecc.). Tiene la regia dell’amministrazione, coordinandosi con gli altri ministeri e con la presidenza del consiglio. Generalmente, fino a qualche anno fa, i capi di gabinetto erano magistrati e avvocati dello stato, figure particolarmente esperte, a conoscenza di tutti i meandri delle amministrazioni. Erano (e sono) di nomina del singolo ministro, ma dovevano essere di gradimento (leggi ‘indicati’) dal presidente del consiglio che, attraverso queste figure professionali, può garantirsi una certa unitarietà d’azione, anche indipendentemente dai titolari dei dicasteri, non necessariamente sempre allineati con lui, come si vede anche in questo Governo dove, spesso, i ministri ragionano in proprio.
Dunque, la nomina del capo di gabinetto è una questione istituzionale di un certo peso. Non ha un carattere esornativo, come generalmente lo è quello di consigliere/a e dunque non bisogna guardare ad interessi di prestigio personale. E quindi, da un (quasi) filosofo ci saremmo aspettati un cominciamento pacato. Attento al rispetto dei meccanismi istituzionali che, da soli, sono buona parte della corretta amministrazione. E invece, anche stavolta, si cerca di far prevalere aspetti personali. Ma non credo che Giuli la spunterà. La Meloni ha troppo bisogno di una squadra coesa, per lasciare che qualcuno faccia per proprio conto, rischiando l’osso del collo.
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