Venerdì primo giugno presso la Clinica Riabilitativa “Le Terrazze”, a Cunardo, si è tenuto un convegno dal titolo “La cura delle persone in stato vegetativo: percorso diagnostico-riabilitativo e aspetti etici”. La natura spiccatamente interdisciplinare del convegno ha fornito ai partecipanti la possibilità di osservare da varie angolazioni la problematica delle persone affette dagli esiti di gravi lesioni cerebrali. È apparso subito chiaro come sia basilare sapere che l’interdisciplinarietà viene intesa non solo come il coordinamento di una serie di passaggi diagnostico-terapeutici del paziente attraverso le competenze dei singoli specialisti, dalla fase acuta a quella della riabilitazione, ma diventa un vero lavoro di conoscenza e approfondimento del linguaggio di chi opera in équipe; questo lavoro, pur nel rispetto del primato di ogni specialista nel proprio campo, permette di armonizzare le singole competenze attivando meccanismi che, in sinergia, concorrano al bene del paziente.
Non è facile, in un contesto interdisciplinare, intendersi al primo cenno, non fosse altro per il fatto che comprendere il “gergo” specialistico di ognuno richiede un lavoro preliminare non superficiale, ma la ricerca successiva di un equilibrio tra “l’arroganza dello specialista”, che tutto spiega con il proprio sguardo sul mondo, e la tentazione della facile e approssimativa appropriazione degli strumenti delle altre scienze, rappresenta il valore e il fascino di nuovi aggregati disciplinari come le cosiddette neuroscienze in cui filosofi, fisiologi, psicologi, neurologi e altre figure provenienti da mondi di pensiero apparentemente inconciliabili, dialogano assieme nel tentativo di comporre una visione armoniosa dell’uomo.
Questo sforzo metodologico sta generando una spinta favorevole a non intendere più il paziente come un agglomerato di apparati distribuibili alle varie competenze, ma sempre più a vedere nell’unità dell’uomo il vero soggetto della cura, superando finalmente una visione troppo specialistica e frammentata a cui la moderna medicina ci ha abituati. Gli spunti di questo dialogo, inoltre, dettano indicazioni che vanno oltre la funzione di strumento di approccio e cura del paziente, suggerendo comportamenti quotidiani per tutti: durante la giornata infatti sono emersi elementi utili a comprendere come entrare in contatto con pazienti affetti da gravi lesioni cerebrali, in cui solo barlumi della persona sono presenti o percepibili dall’esaminatore, richiede o modalità diagnostiche ad alto contenuto tecnologico (come la Risonanza Magnetica Funzionale) o approcci che passano da elementi apparentemente inconsueti nella nostra idea di comunicazione, ma si rifanno a schemi comuni al patrimonio di sviluppo della vita umana e sociale di tutti. Mi riferisco ad esempio al fatto che, in ambito fisiatrico, grande peso viene dato al recupero di funzioni quali la suzione e la deglutizione, tanto da essere considerato nel percorso riabilitativo dei pazienti in coma un passo iniziale ineludibile; un primo contatto nella terra desolata di un cervello sconvolto da un’emorragia o dagli effetti di un grave trauma cranico, trae origine da qualche cosa di primitivo, spesso tutto quello che resta di una mente e della sua storia.
Da questo barlume si comincia a ricostruire un contatto con il mondo, dando ascolto a quello che può essere recuperato, rinunciando al modo consueto di comunicare, perché in quel momento non è presente, non è il modo giusto. Trovo in tutto questo un grande insegnamento; spesso, per entrare in relazione con una persona occorre fare prima un passo di ascolto profondo per comprendere quale mondo, quale modo, forse diversissimo dal nostro, stiamo incontrando; non per rinunciare alla storia che costituisce il nostro comunicare ma per trovarvi la chiave che possa essere riconosciuta dall’altro e adoperata per guardarsi e cominciare a parlare. Non un passo di umiltà o di buonismo dunque, abdicando al nostro mondo, ma di curiosità, di interesse verso l’altro e verso quello che di lui riconosciamo in noi stessi. Una relazione allora nasce nel momento stesso in cui si riesce ad intuire nel volto dell’altro lo stesso mondo (di creatura, figlio, fratello, essere della stessa specie, compagno di viaggio, chiamatelo come volete) che serbiamo, a volte ben nascosto, nel profondo delle nostre complesse e ben difese menti di uomini moderni.
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