Il 3 novembre 1984 Papa Giovanni Paolo II salì come pellegrino al Sacro Monte di Varese. Al suo fianco Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, e monsignor Pasquale Macchi, già segretario di papa Montini e arciprete del Sacro Monte. A quest’ultimo, figura religiosa di importanza paragonabile a poche altre nella storia cristiana della nostra terra, si deve la realizzazione pratica di un evento memorabile per la Città Giardino.
Quarant’anni dopo, domenica prossima, Varese ricorderà quel giorno storico con l’avvento del cardinal Pietro Parolin, segretario di Stato Vaticano. Parolin ripercorrerà, insieme alla comunità religiosa varesina, le stesse orme di Wojtyla, prima recitando il Rosario lungo la via Sacra (ore 15), poi presiedendo la messa nel Santuario di Santa Maria (ore 16.30).
Testimone privilegiato della visita di Giovanni Paolo II fu Giuseppe Gibilisco, sindaco dal 1978 al 1985. Fu lui infatti ad accogliere Wojtyla all’ippodromo le Bettole, dove il pontefice arrivò in elicottero da Malpensa, per poi accompagnarlo insieme ad altre personalità civili e religiose lungo la salita delle cappelle. Il Papa fu attorniato da ben 60mila persone.
Intervistato da Annalisa Motta per Radio Missione Francescana, Gibilisco regala al lettore uno sguardo pieno e curioso su quelle ore indimenticabili.
L’idea: «Avrei sempre voluto che il Papa venisse a Varese e al Sacro Monte e ho provato tante volte a mandare inviti e segnali, ma la cosa era estremamente difficile. La soluzione non fui io a trovarla, ma monsignor Pasquale Macchi: senza di lui il Papa non sarebbe mai arrivato… La prima volta che incontrai Giovanni Paolo II fu per un pellegrinaggio dell’Unitalsi. Quando gli dissi “Venga a Varese, santità”, lui non mi parlò di Varese, ma mi chiese “Come sta il mio amico arciprete del Sacro Monte, monsignor Pasquale Macchi?”. Rimasi di stucco che usasse un termine così preciso, “arciprete”: lì capii la grandezza di monsignor Macchi…».
Il progetto originario: «All’inizio l’idea era quella di far dormire il Papa al Sacro Monte – c’era già una stanza preparata – per poi lasciarlo partire per Milano e Pavia, ma fu bocciata dal cardinal Martini, che lo voleva a Milano già quel giorno per celebrare la messa al cimitero (si celebrava il 4° centenario dalla morte di san Carlo Borromeo, ndr). Il compromesso fu allora quel breve pellegrinaggio, con Martini che continuava a dire “Santità, si ricordi che deve venire anche a Milano…”. Fu pure allestita una piazzola straordinaria al Sacro Monte per far atterrare l’elicottero e velocizzare le operazioni…».
L’arrivo: «Wojtyla arrivò in elicottero all’ippodromo, lì incontrò poche persone: il sottoscritto, mia moglie, mio figlio Giacomo, Ernesto Redaelli che rappresentava la proprietà dell’ippodromo e monsignor Bernardo Citterio, vescovo ausiliare di Varese. Con lui c’era il cardinal Martini, padrone di casa. Giunto in “papa mobile” alla Prima Cappella iniziò la salita. Dietro di lui le autorità del luogo, una cinquantina di persone. A destra e a sinistra avevamo transennato tutto, in modo che la gente potesse lungo il percorso assistere e recitare insieme al Papa il rosario. C’erano due microfoni, uno addosso al papa, un altro a monsignor Macchi, nell’ipotesi che il papa non ce la facesse a parlare e camminare insieme, anche perché era ancora reduce dall’attentato… Non fu necessario: da montanaro qual era ce la fece senza problemi, Macchi non dovette mai intervenire…».
I preparativi: «Ci furono una serie di incontri di preparazione dove i personaggi più importanti furono il prefetto di Varese, il questore e Mario Lodi, ex direttore della Prealpina, presente su incarico di Macchi per coordinare l’ufficio stampa e anche perché, tramite i Lions di Varese, aveva contribuito a sostenere le spese per l’illuminazione della cappelle. Bisognava organizzare l’evento in sé, ma anche la sicurezza, tema assolutamente centrale. Optammo per il transennamento, insieme al servizio d’ordine degli Alpini e a quello della questura, che aveva dislocato i suoi uomini in posizioni chiave».
L’aneddoto: «Quando il Papa scese all’Ippodromo di Varese, salutò tutti e poi guardò il cardinal Martini chiedendo: “Mi avete portato la croce pettorale di San Carlo?” A quel punto arriva un “pretino” con in mano un cofanetto, con dentro la croce. Lui si leva la sua, mette la croce di San Carlo e dice al pretino: “Questa è mia, perché io mi chiamo Carlo… Grazie del dono che mi fate…”. Ma il pretino gli rispose: “Santità, fa parte del tesoro del Duomo di Milano…”, come a dire (non può essere sua… ndr)… Scese il gelo… Beh le storie successive dicono che se la tenne anche a Milano e a Pavia, e che il Duomo di Milano dovette mandare al Vaticano un suo sacerdote a ritirare la croce parecchio tempo dopo…».
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