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Pensare il Futuro

PERDONACI, SUDAN

MARIO AGOSTINELLI - 25/10/2024

sudan_protesteLa guerra nel Sudan sta uccidendo decine di migliaia di persone, ne ha sfollato più di 10 milioni e minaccia di divorarne altri 13 milioni attraverso la carestia. Si tratta di un conflitto che ha alla base un progetto di pulizia etnica, ma non ci sono manifestazioni di massa per le strade del nostro mondo, né alcun hashtag sui social media che guizzano sugli smartphone.

Il conflitto infuria dall’aprile 2023, nel mezzo della peggiore crisi umanitaria del mondo. I racconti sono orripilanti. Maryam, una donna fuggita nel Ghana racconta ad un inviato del Globo come la milizia araba, colpevole del massacro del Darfur di due decenni fa, abbia fatto irruzione nel suo villaggio nel sud. Gli uomini armati hanno schierato uomini e ragazzi mentre il loro capo dichiarava: «Non vogliamo vedere persone di colore. Non vogliamo nemmeno vedere sacchi della spazzatura neri». Poi, ha prontamente sparato a un asino nero, segnalando il suo intento. Dopodiché, gli uomini delle RSF hanno iniziato a giustiziare tutti i maschi di colore di età superiore ai 10 anni, compresi i cinque fratelli di Maryam e anche alcuni più piccoli.

 Kate Ferguson, dell’organizzazione “Protection Approaches”, che sta facendo tutto il possibile per far sì che i decisori politici si concentrino in particolar modo su questa guerra feroce, afferma che i morti sono addirittura 150.000 o più, perché nessuno li sta contando.

In questa guerra civile, non c’è un apparato statale ufficiale, nessun ministero della salute che pubblichi cifre giornaliere. Nessuna ONG internazionale può farlo perché, dice Ferguson, «nessuno ha grandi squadre sul campo».

È chiaro che la natura del conflitto in Sudan, una guerra civile, significa che non c’è un governo unico, nessuna figura alla Volodymyr Zelenskyy, dietro cui gli estranei possano schierarsi. Questo è ciò che accade in un luogo che per secoli è esistito nell’immaginario occidentale come “il continente oscuro“. Come se i redattori – come riferisce il Guardian – e i ministri degli esteri, stessero dicendo sottovoce: «È l’Africa. Cos’altro ti aspetti?».

Sia la RSF (Rapid Support Force) che le Forze armate sudanesi, o SAF, sono colpevoli di crimini spaventosi e non esiste una struttura narrativa semplice e familiare in cui questo conflitto possa essere inserito. È anche una nostra grave responsabilità. Abbiamo organizzato il mondo, passato e presente, in due nette categorie: ci sono gli oppressi e ci sono gli oppressori, ci sono i colonizzati e i colonizzatori. Con alcuni conflitti può sembrare facile etichettare ogni parte, ma come ci si schiera, quando un conflitto non è, letteralmente o metaforicamente, bianco contro nero, ma fazioni in contrasto ferocemente mutevole?

Di fronte a questo enigma, è più facile dichiarare semplicemente che l’intera faccenda è troppo complicata e voltarsi dall’altra parte. Molti lo hanno già fatto durante la guerra civile in Siria.

È un’ulteriore prova che, quando si tratta di vedere il mondo, il rozzo “anticolonialismo” è una lente terribilmente annebbiata. Funziona solo se pensi che il nostro pianeta sia diviso in buoni e cattivi, piuttosto che capire che alcuni scontri mettono due giuste cause l’una contro l’altra, mentre altri implicano una collisione di due varietà di malvagità, ciascuna delle quali afferma di agire in nome degli oppressi.

Il popolo del Sudan non dovrebbe dover chiedere scusa per il fatto che la sua tragedia non si adatta alla versione da favola della moralità, che così tanti sembrano desiderare. Siamo noi che dovremmo chiedere scusa a loro, per averli ignorati nella loro disperazione, e per aver finto di averci mai importato dei loro stenti, delle loro vite e morti atroci.

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