In questi giorni, quando la mattina apro le finestre e vedo il cielo di Varese invariabilmente bianco – se non decisamente scuro, minaccioso o piovoso –, mi chiedo: ma perché vivo qui? Sì, lo so perché: qui ho gli amici e l’unica parente rimasta, Varese è casa. Però, tornata da poco dalle vacanze, col cuore sono rimasta in Sicilia. Ho soggiornato dieci giorni nell’estremo sud-est dell’isola, in un villaggio che si affaccia su una spiaggia lunghissima e profonda, modellata dalle onde del Mediterraneo che lì sembra oceano. Pure i giorni grigi erano luminosi. Del Sud amo la luce, anche quella impietosa e ardente di luglio e agosto che quasi annulla i colori; mi sento in sintonia con i popoli antichi, Greci e Romani, che l’hanno abitato; riesco a capire e quasi a sentire il loro amore per la vita, persino la mancanza di pudore con cui esprimevano quell’amore.
E così volto le spalle al cielo latteo di Varese e ritorno col pensiero al verde dei fichi d’india già punteggiati dall’arancio dei frutti maturi, ai campi di mandorli, di carrubi, di ulivi e di viti. Rivedo la luce di Noto, esaltata dal colore chiaro degli edifici barocchi. Ripercorro gli spazi della Villa del Casale di Piazza Armerina cercando di ricordare i mosaici multicolori: gli animali esotici, i pesci sott’acqua, i bambini che giocano, le atlete in costumi succinti che si allenano con eleganti movenze di danza.
Il blu, il giallo, il verde e l’arancio sono i colori delle ceramiche di Caltagirone: fermarsi davanti alle vetrine che le espongono o entrare nei negozi non è solo fare shopping, ma capire un po’ di più l’anima di questa terra, la sua passionalità e le sue contraddizioni. Dopo aver ammirato la sontuosità del barocco non ti aspetteresti l’umile Marzamemi, i suoi modesti accoglienti locali, i vicoli e le piazze a misura umana, le tonnare. Eppure qualcosa unisce tutte queste diverse realtà e credo proprio che sia la luce. E anche la sua storia: meta di popoli e culture diversi, ha saputo fonderne e armonizzare le caratteristiche, fino a farle proprie.
Anche di Scicli mi è rimasta la luce, benché l’abbia visitata di sera: la luce bianca della chiesa di San Matteo che domina la città dall’alto di una collina, quella dorata che illumina gli edifici e le vie principali. Era una sera tranquilla di fine settembre, le strade ancora brillavano per la pioggia caduta durante il giorno, non c’erano turisti e anche sciclitani ne giravano pochi. Sembrava che la città ci stesse aspettando e ci accogliesse con l’eleganza delle sue architetture, che hanno saputo interpretare il barocco con discrezione. L’ho trovata “carezzevole”. So che è un aggettivo improprio per una città, però è proprio questa la sensazione che ne ho ricevuto. Forse anche grazie ad un sontuoso cannolo fritto e farcito al momento in una pasticceria? Non lo escludo.
Ma le immagini più luminose e consolatorie in cui mi rifugio per sfuggire al grigiore sono due. Capo Passero, la punta più meridionale dell’isola, su cui sorge un bianco torrione e che ancora vedo inquadrata tra le pale dei fichi d’india, e la spiaggia di Marespica battuta dal vento, che l’ultima mattina, prima della partenza, mi sono fermata ad abbracciare con lo sguardo dall’alto della terrazza del bar, nella speranza che la visione potesse accompagnarmi per tutto l’inverno.
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