Mentre a Palermo si processa Salvini in chiave tutta “politica” troppe volte parlando di migranti si parla sulla base di “sensazioni” e raramente su dati statistici reali. Per esempio al 30 settembre di quest’anno erano arrivati in Italia dal “fronte sud” (ovvero via mare) 49.788 persone contro le 134.230 dell’anno scorso e – sempre per lo stesso periodo – le 72.036 del 2022.
Significa che c’è stato un forte raffreddamento dei flussi legato alle politiche governative per restringere l’azione delle ONG nel Mediterraneo, anche se questi dati non tengono conto però del flusso dal “fronte est” ovvero di persone che arrivano ora attraverso la penisola balcanica.
Colpisce il fenomeno dei minori non accompagnati che nel 2022 furono 14.044, salendo a 18.820 l’anno scorso mentre sono stati 5.542 fino a metà settembre di quest’anno, ricordando però che sono minori auto-dichiaratisi tali, ma che spesso sono persone over 18, un trucco per garantirsi la permanenza dopo lo sbarco.
Interessante notare come stia fortemente diminuendo l’immigrazione dall’Africa mentre è l’Asia il continente che spinge più migranti verso le nostre coste, in testa i 9.940 dal Bangladesh e gli 8.822 siriani. Sono di solito persone che in gran parte arrivano in Egitto e Tunisia via aerea e poi tentano la traversata grazie ad un vero e proprio commercio (ovviamente illegale) e catena di sfruttamento “all inclusive”. Seguono poi i tunisini (6.594) gli egiziani (oltre 3.000) che sono invece accompagnati direttamente sulle coste per la traversata.
Una questione è il rapporto immigrazione-criminalità che cambia molto a seconda del Paese d’origine. Per esempio su 140.000 filippini presenti in Italia solo 50 risultano detenuti mentre su 426.000 marocchini lo sono ben 2.905, ovvero in proporzione 21 volte di più. Sarà un caso ma i primi sono tradizionalmente cattolici, gli altri no e questo non è “razzismo”, ma solo la realtà. È solo un esempio per sottolineare come per integrarsi meglio e più velocemente conta molto la società di provenienza, la lingua e la religione di appartenenza, il contatto più o meno già consolidato con la realtà europea.
Davanti a questo fenomeno mi chiedo perché l’Europa – oltre che sorvegliare le frontiere, adottare politiche di integrazione ecc. – non stipuli più stretti rapporti con alcuni specifici Paesi per “filtrare” all’origine le partenze, soprattutto perché la gran parte dei migranti non riesce altrimenti a svolgere in Europa le mansioni o le professioni per cui ha studiato o che svolgeva in patria. Mancano infermieri e badanti ma anche perché spesso non vengono riconosciuti i titoli di studio di chi emigra soprattutto se l’immigrazione è stata irregolare. È assurdo usare come lavapiatti un ingegnere nigeriano o umiliare una infermiera ospedaliera con 20 anni di esperienza solo perché non riesce a validare in Italia i suoi titoli di studio.
Affrontare queste problematiche imporrebbe un approccio più pragmatico perché l’immigrazione legale in Europa è una necessità, gestibile non solo con i “decreti flussi” ma proprio andando a scegliere anche competenze e professionalità.
Anziché pensare al solo recupero in mare – che è l’ultimo e spesso drammatico anello della catena – sarebbe infinitamente più logico scremare all’origine i richiedenti asilo e gli immigrati economici, eppure questo discorso che non riesce a decollare.
Così come mi sono sempre chiesto perché, ad esempio, le Conferenze Episcopali africane non operino in sinergia con la CEI per preparare all’emigrazione chi vuole giocare la carta europea.
Trasformare l’immigrazione in risorsa è una necessità per l’Europa ma contrastando contemporaneamente gli abusi e i traffici di carne umana.
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