(C) Una piccola, breve riflessione sulla cittadinanza. La introduco semplicemente osservando che è un tema importantissimo, non facile, da non confondersi con quello dell’emigrazione, che pure gli è contiguo. Siamo indotti a seguire, per spinte politiche contingenti e molto strumentalizzate, due tensioni opposte ed esagerate. La prima: (banalmente riconducibile alla sacralizzazione dello ius sanguinis) si è italiani per discendenza biologica e si rimane italiani, in potenza, anche a distanza di generazioni e anche avendo acquisito un’altra cittadinanza. La seconda: (ius soli, o scholae, o per altro genere di automatismi) si diventa italiani al verificarsi di condizioni materiali: nascita sul territorio, permanenza sullo stesso per un certo numero di anni, anni di lavoro e possesso di beni ecc.) Le cose che a me sembrano più importanti, che determinano reale appartenenza ad una concreta comunità, la condivisione di un livello essenziale di valori comuni e l’impegno manifesto di riconoscerli e di praticarli, in entrambi i casi sono presupposte o ridotte a formalità.
(S) Difficile mettere un limite allo ius sanguinis, non riconoscere un certo diritto al figlio di un espatriato per lavoro; anche se nato all’estero e sebbene abbia acquisito per nascita anche un’altra cittadinanza, rilasciata da uno Stato che consente la doppia cittadinanza a causa dello ius soli per propria convenienza, come hanno fatto per secoli quelli che avevano immensi territori spopolati.
(O) E che magari la concedevano facilmente ad immigrati dall’Europa, non riconoscendola di fatto alle popolazioni autoctone (i nativi americani o australiani o sudafricani). Una forma mascherata di suprematismo? Specularmente uguale e contraria a quella di chi non vuole concederla a nessun costo a chi si insedia in Europa venendo da altri continenti.
(C) Scusate, ma lo ius soli esiste anche in Italia, per il nato sul suolo italiano, pur gravato dalla condizione della residenza fino ai diciotto anni e dalla richiesta formale al raggiungimento della piena disponibilità del diritto di decidere di se stesso. Non è un obbligo, ma un’opportunità, per coloro che non abbiano ottenuto la cittadinanza prima attraverso i genitori. Chi dice che questo non è sufficiente, pone però un altro serio problema: far sentire una parità formale, spesso in assenza di parità sostanziale, al giovane straniero, figlio di immigrati che non hanno potuto o voluto ottenere la cittadinanza, donde la proposta dello ius scholae. Ma ad un intento positivo si frappongono difficoltà non immediatamente evidenti, anche perché in pochi le conoscono. Mi rifaccio ad un esperto.
“Non tutti sanno che in alcuni Paesi non è permesso avere una doppia nazionalità. Inoltre chi rinuncia alla nazionalità per assumerne un’altra è visto come una specie di traditore della patria. Questo rende praticamente impossibile alle famiglie che non rinunciano alla prospettiva prima o poi di ritornare in patria, di farlo. Ci sono anche grosse differenze tra noi e molti Paesi, soprattutto dell’Asia, sulla questione del diritto di famiglia. Basti pensare, ad esempio, che in questi Paesi non esiste, e non è neppure concepibile, quella che noi chiamiamo “separazione dei beni” per quanto riguarda il matrimonio. In alcuni Paesi di regime socialista la comunione dei beni si estende non solo al coniuge ma anche al collettivo a cui appartiene. I figli divenuti italiani di queste famiglie come potranno avere diritto?”. Mi pare necessario ricorrere ad una manifestazione di volontà che escluda l’automatismo. Ancora più evidente è il contrasto che si genera se lo ius scholae attribuisce la cittadinanza al figlio minore ma non ai genitori/tutore.
(O) Allora potremmo concordare sulla proposta del professor Blangiardo, demografo, che come tale è sensibile anche al problema del calo demografico, dello ius familiae: tutta la famiglia acquisisce la cittadinanza al raggiungimento di determinate condizioni, facilitate dalla frequenza scolastica dei figli e dal raggiungimento, anche attraverso di loro, di un minimo di omogeneità culturale e valoriale con i principi costituzionali.
(S) Questo escluderebbe l’accettazione, tipica del multiculturalismo, di sharia, poligamia, mutilazioni femminili, matrimonio imposto, soggezione femminile eccetera. Potrebbe essere una buona proposta, ma occorrerebbe qualcosa come un periodo di prova.
(O) Ho un’idea che può sembrare stravagante. Nell’impero romano, ancora prima della universalizzazione della cittadinanza, c’era la figura giuridica dell’Hospes, persona titolare di alcuni diritti, formalmente definiti, non semplicemente derivati dalla tolleranza verso lo straniero, ma non ancora cittadino romano.
(C) Ecco da dove nasce quella metafora di s. Paolo nella Lettera agli Efesini, quando scrive ai convertiti: “Non siete più stranieri, né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio…” indicando un percorso di introduzione alla Chiesa parallelo a quello esistente nel diritto civile. La condizione di Hospes, preparatoria alla cittadinanza, dovrebbe essere molto più facilmente acquisibile, comportare minori ma precisi doveri, quali una conoscenza di base della lingua, la frequenza scolastica per i minori, l’accettazione formale ma anche pratica dei principi costituzionali. Questo permetterebbe di accorciare il tempo di residenza necessario per ottenere la cittadinanza, darebbe uno stato giuridico e soprattutto una speranza, quasi una certezza ad immigrati desiderosi di stabilità.
(C) Costante (S) Sebastiano Conformi (O) Onirio Desti
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