Quando parla la politica, si sta sempre un po’ sul chi vive, col fiato sospeso, perché non sai mai se ti stanno dicendo la verità o se raccontano balle. Ben che vada, annusi delle mezze verità, ma il più delle volte mentono. La settimana scorsa Giancarlo Giorgetti, ministro dell’economia e delle finanze, in un’intervista a Bloomberg (4 ottobre), diceva la verità, quando asseriva che con la prossima finanziaria «ci saranno un po’ di sacrifici per tutti».
Era vero quel che ha detto di fronte alle telecamere e ricordava un po’ il caso d’una decina d’anni fa, della ministra Elsa Fornero, che si commosse fino alle lacrime annunciando il suo progetto di riforma delle pensioni. Quel che aveva in mente, per evitare il tracollo della finanza pubblica, avrebbe fatto soffrire molte persone e quindi non era certo una cosa da prendere a cuor leggero. Era l’atteggiamento comprensibile di una persona seria. La settimana scorsa, Giorgetti non ha pianto, ma si vedeva, dai modi un po’ concitati con cui rispondeva all’intervistatrice, che si sentiva in dovere di dire al Paese le cose come stanno. Da uomo di lago, un po’ burbero, serio e riservato, non voleva raccontar balle, indorando la pillola.
È la sua terza finanziaria alla guida del dicastero dell’Economia, ma è la prima dopo la firma del nuovo patto di Stabilità, che ci impegna a ritornare sulla via del rigore, dopo anni di spese assolutamente fuori controllo, in parte giustificate, dovute alla pandemia da Covid 19 e in parte, completamente sbagliate, in cui si è largheggiato con reddito di cittadinanza, Recovery Plan e Super bonus, per finanziare anche chi non aveva alcun bisogno di finanziamenti. Per tutto questo, tra il 2020 e il 2021 abbiamo preso impegni di spesa per oltre 400 miliardi di euro, qualcosa come una decina di finanziarie. O se vogliamo, il doppio dei mitici fondi del PNRR (194,4 MLD di euro). Adesso, da questi debiti bisogna rientrare, va rimesso a posto il bilancio e quindi è naturale che ci siano dei sacrifici da fare. Francamente, era un esito un po’ scontato. E Giorgetti, va detto, non poteva fare diversamente. Non si può ridurre la spesa che, già così com’è, è incomprimibile. I salari sono al minimo e le spese per il funzionamento delle amministrazioni ampiamente al di sotto del necessario. E chi non paga le tasse continuerà a non pagarle.
Nonostante la linearità del ragionamento, quelle parole han creato un forte imbarazzo nella maggioranza di governo, per cui son filtrate subito delle precisazioni, provenienti proprio dal suo ministero, per ridimensionare le parole del ministro (!). Si è cercato di precisare che i sacrifici li faranno le imprese più grandi, quelle che in questi anni han beneficiato di condizioni particolarmente favorevoli e forse ci sarà qualche contributo volontario proveniente dal sistema bancario. Tutte balle. Mentre è sicuro che, in una maniera o in un’altra, tutti noi dovremo fare dei sacrifici per rimettere in sesto la situazione.
Ha sbagliato Giorgetti a dire la verità? Ha fatto bene Salvini a intervenire in fretta e furia dicendo che «questo non è il governo delle tasse»? ognuno valuterà per suo conto. Recentemente, però, una nota studiosa italiana di scienze politiche, Nadia Urbinati, che insegna nella prestigiosa Columbia University di New York, ha scritto un libro, L’ipocrisia virtuosa (2023), nel quale si domanda se siamo davvero sicuri che dire la verità sia sempre la cosa migliore. Il politically correct richiede una certa dose di ipocrisia e può essere addirittura un valore di civiltà se è limitato, circoscritto e non sistematico.
Può diventare anche un indicatore di maturità e autogoverno. È naturale e anche comprensibile adattare il linguaggio alle circostanze, dosare abiti diversi e misurare il dire. Ma ci sono situazioni che non consentono di essere diplomatici, come di fronte all’arroganza del potere. Quando si vuol dare ad intendere, solo perché si parla da un certo pulpito, che una certa verità sia il falso. Allora, l’ipocrisia diventa un’insidia formidabile, che “erode nell’ombra le fondamenta della fiducia”. Dunque, non ci si stupisca se poi, alle elezioni, manca il consenso e se dominano disincanto e astensionismo.
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