Quasi 38 anni sono passati da quel 7 gennaio 1987 che – chissà perché – immaginiamo come un giorno freddissimo, di quelli che oggi non incontriamo più.
Per tanto tempo c’è stata come una luce a illuminare il nome di Lidia Macchi, un faro sempre acceso nel buio pesto che copre il mondo quando una giovane vita viene spezzata. È la stessa luce che per tanto tempo abbiamo scorto negli occhi di sua madre, 38 anni a lottare per una verità, nonostante il dolore, nonostante la stanchezza, nonostante Lidia sia stata uccisa di nuovo tante volte, dagli errori, dai malintesi, dalle false apparenze.
La categoria non spicca per meriti, ma va scritto che anche i giornalisti (nel caso di specie quelli locali) hanno contribuito per lo stesso lasso di infinito a tenere accesa questa luce. Sarà che il caso Macchi – spesso un po’ snobbato dai bollettini nazionali, non si sa con quale logica mai considerato davvero “degno” di stare a fianco dei grandi misteri irrisolti della nera italiana – dai varesini è sempre stato invece ritenuto vitale, tanta la voglia di dare un senso (cancellarla non è più possibile) a una delle pagine più nere della storia di queste lande.
Da qualche tempo, però, la direzione del faro sembra spostata irrimediabilmente in un’altra direzione. Da 5 anni, dal 2019, il caso Lidia Macchi è diventato il caso Stefano Binda, come se il tutto si fosse ridotto a una parte, prima sostanziale, poi sempre più marginale.
In pochi l’hanno fatto notare.
Binda, amico di Lidia, rimasto fuori dalla scena del delitto per tre decenni, viene arrestato nel gennaio 2016, poi condannato all’ergastolo dalla corte d’Assise di Varese: è stato lui a sferrare le 29 coltellate che hanno tramortito la 21enne varesina prima scomparsa nel nulla, poi ritrovata nei boschi di Cittiglio. Caso chiuso? Solo per poco: il ricorso della difesa viene accolto e la sentenza di primo grado ribaltata in appello: è il luglio del 2019 e Binda esce dal carcere. Arriverà anche l’ultima parola della Cassazione: assoluzione con formula piena.
No, non è stato lui l’assassino della ragazza. Ma sarà lui a rimanere sulla cresta dell’onda delle cronache. I suoi avvocati, per i tre anni e mezzo trascorsi ingiustamente in carcere, chiedono un risarcimento. La Corte d’Appello di Milano gli riconosce 300 mila euro, ma la procura generale di Milano fa ricorso in Cassazione, che lo accoglie con rinvio: 300 mila euro sono troppi, perché in aula Binda avrebbe tenuto un comportamento equivoco e confuso, «non fornendo – scrivono i giudici - alcun contributo chiarificatore né sul suo alibi, né sugli elementi indiziari valutati a suo carico nei provvedimenti de libertate». Insomma il filosofo varesino, per i giudici, avrebbe con la sua condotta indotto all’errore la magistratura.
La palla torna allora a Milano, che si pronuncia in merito per la seconda volta due settimane fa: a Binda spetta il 30% in meno della cifra iniziale, circa 212 mila. Finita qui? No, per nulla: a fare ricorso un’altra volta è l’Avvocatura dello Stato, che blocca di nuovo il risarcimento.
Binda, Binda e ancora Binda: la luce ora è solo su di lui e sulla sua parabola esistenziale. Dal 2019 nessuno cerca più la verità: chi ha ucciso Lidia? Sembra non interessare, come se lo Stato fosse un Paganini che non ripete, nemmeno quando sbaglia, come se a compiere l’orrendo delitto non fosse stato nessuno, visto che l’omicidio non è più attribuibile all’unico “colpevole” che in 38 anni si è riusciti a individuare. Sbagliando.
Trentotto anni di indagini contraddittorie, di prove sparite nel nulla, di colpi di scena a poco a poco sfumati nel nulla. Trentotto anni di attesa di una famiglia che ha dovuto sopportare dolori aggiuntivi, come l’inutile riesumazione del corpo della figlia.
Trentotto anni di luce, ma il faro ora sta illuminando altro, forse anche per paura di dover tornare indietro ed essere costretti a illuminare il vuoto. Aver perso la speranza di riempire questo vuoto è il buio odierno più autentico.
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