Questa rubrica, forse un po’ sbilenca ed estrosa -ma in qualche modo ha sempre a che vedere con l‘arte- è il giusto guscio per accogliere un curioso racconto fattoci da un’amica desiderosa di rimanere nell’ombra.
La mattina solare l’aveva invogliata, tempo fa, alla visita a una mostra, nella nostra città, che desiderava vedere da tempo.
Detto fatto aveva compiuto il suo viaggio all’interno del museo, tra opera e opera di importanti autori che avevano resa grande Varese, da loro scelta come dimora perenne o luogo di delizia per trascorrervi le estati. Il meraviglioso percorso tra sculture, pitture e fotografie le aveva portato beneficio e pronta consolazione alle preoccupazioni della vita che accompagnano sempre più negli anni il cammino di ciascuno. Completata con soddisfazione la visita, aveva poi varcato la porta e attraversato il patio adiacente il museo. Proprio in quel momento una coppia, un uomo e una giovane donna, avanzava spensierata verso di lei tenendosi per mano; i loro visi, il taglio degli occhi, i lineamenti, il colore ambrato della pelle raccontavano di origini lontane: sudamericani, forse. Non turisti, ma migranti.
Li aveva seguiti con la coda dell’occhio mentre cercava di rispondere a un messaggio telefonico. E non le era sfuggito che, aperta la porta d’ingresso, avevano subito chiesto se l’accesso alla mostra fosse libero. La risposta, un po’ mesta, del custode -era necessario acquistare il biglietto – li aveva convinti a ringraziare e andarsene. Se li trovò subito di nuovo davanti, silenziosi, e li vide girare dietro di lei per allontanarsi furtivamente. Le sembrò di vedere negli occhi della giovane donna -ma la mia amica diceva di esserne quasi certa- la tristezza della delusione e una malinconia trattenuta con la dignità di chi è abituato alla rinuncia.
“Mi è venuto allora -mi raccontava- un pensiero, non sapevo se giusto o indelicato, ma sentivo che dovevo provare a fare qualcosa: sennò sarebbero andati via senza aver coronato quel desiderio. E avrebbero perso molto, e forse maturato per sempre l’idea che il mondo non è uguale per tutti. Così, a costo di risultare inopportuna, ho forzato me stessa e cercato di dare un calcio alla sorte, scombinando le carte, come in un gioco, quasi non fossi neppure io a condurre la partita, ma quel pittore dei tre, l’autore di Spes contra Spem, che in una delle sale mi aveva fatto fare un balzo all’indietro perché dipingeva, ritratto in una foto, e pareva vivo.
‘Volevate vedere la mostra?’ mi sono sentita dire con semplicità. La risposta è stata di assenso. E allora ho fatto la proposta; se me lo permettete vi omaggio io l’ingresso. Ho aperto la borsa e porto quanto sapevo sarebbe servito. “L’arte fa bene”, mi sono scusata, e mi è venuto di abbracciare la donna e sono spuntate a tutt’e due le lacrime agli occhi”.
La mia amica mi ha anche detto che mentre tornava a piedi seguendo la strada che riporta nel centro della città, per riprendere il treno, si è domandata più volte se non fosse stata inopportuna. Ma sperava invece, scombinando le carte, di aver contribuito ad aprire davvero una porta. Magari l’inizio di qualcosa di nuovo per la giovane coppia.
Si è chiesta anche se non sarebbe bello lasciare nei musei dei biglietti in sospeso, come si fa nei bar di Napoli col caffè. Perché certo ci sono giornate a ingresso gratuito, ma la vita non sempre ti permette di esserci al momento giusto, quando puoi o vorresti.
E vedersi chiudere una porta davanti non è mai bello. Soprattutto in una giornata di sole.
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